LEGUMI: I FAGIOLI

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Un tempo, non a torto, i fagioli venivano definiti “la carne dei poveri“. Infatti con un alto valore nutrizionale e un modesto costo, per anni sono stati il cibo base di molte popolazioni con tenore di vita molto basso. Ricchi di proteine (il 20%), ma poveri di grassi, sono un alimento ottimale in un regime dietetico corretto, oggi tanto raccomandato. Contengono molti micronutrienti, come fosforo, sodio, ferro, zinco. Se ne conoscono 300 varietà ma in Italia vengono maggiormente consumati i borlotti, i bianchi di Spagna, i cannellini. L’assunzione di fagioli può provocare uno spiacevole effetto collaterale con formazione di gas intestinali. Per non limitarne il consumo e ovviare a questo fastidioso inconveniente, si può aggiungere un’erba aromatica, la santoreggia, oppure un cucchiaino di zenzero grattugiato.

LA RICETTA. Fagioli all’uccelletto

Ingredienti (per 4 persone): 300 g. di cannellini, 200 g. di pomodori pelati, salvia, aglio, sale, 15 g. di olio extravergine.
Rosolare l’olio con la salvia e l’aglio. Aggiungere i pomodori pelati e lasciare cuocere fino ad ottenere un sugo denso. Unire i fagioli precedentemente lessati, aggiustare di sale e cuocere per 10 minuti. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 65,175. Proteine: 18,15 g. Lipidi: 5,20 g; saturi 1,03 g: insaturi 1,05 g; monoinsaturi 2,90 g. Carboidrati: 35,62 g. Fibra: 13,57 g.

PANE BIANCO O PANE INTEGRALE?

È opinione comune che il pane bianco sia meno salutare di quello integrale, più ricco di fibre, proteine, vitamina B e minerali. Ma potrebbe non essere così. In uno studio pubblicato sulla rivista Cell Metabolism i ricercatori del Weizmann Institute of Science in Israele hanno seguito venti volontari nell’arco di due settimane: dieci hanno mangiato per una settimana pane integrale e quella successiva pane bianco, gli altri dieci hanno fatto il contrario (questo disegno sperimentale si chiama cross-over, a significare che i trattamenti che si vogliono confrontare vengono somministrati a tutti i pazienti, in una sequenza casuale; in questo modo ogni soggetto funge anche da controllo di sé stesso) .

I ricercatori, prima e dopo ciascun “trattamento” (pane bianco o pane integrale), hanno monitorato una serie di parametri, tra cui la glicemia, il calcio, il magnesio e altri minerali essenziali, il colesterolo e il microbiota intestinale, quello che viene anche definito flora batterica e che comprende tutti i microorganismi che vivono nel nostro intestino (ne abbiamo parlato le scorse settimane).

Lo studio ha rivelato che i livelli di zuccheri, minerali ed enzimi nel sangue erano influenzati dal consumo di pane, ma non era il tipo di pane a fare la differenza, ma le caratteristiche individuali. La risposta glicemica, per esempio, era molto variabile da individuo a individuo, e costante nello stesso individuo, indipendentemente dal tipo di pane consumato. L’unica caratteristica individuale in grado di predire la risposta glicemica era rappresentata dalla composizione del microbiota intestinale, che peraltro non era anch’essa influenzata dal tipo di pane consumato. In altre parole è il microbiota, e non il tipo di pane, che determina la risposta glicemica; per qualcuno è più salutare un tipo di pane, per altri un altro, e dipende dal microbiota.

La ricerca presenta alcuni limiti: il numero di soggetti studiati è limitato, la durata del “trattamento” è breve, non si è tenuto conto degli altri alimenti che i volontari hanno consumato oltre al pane. Non si può (e non si voleva) affermare che un tipo di pane sia meglio dell’altro. Certamente si conferma che il microbiota intestinale svolge un ruolo chiave nella regolazione dell’omeostasi del nostro organismo e della risposta agli alimenti con cui quotidianamente entriamo in contatto.

Korem et al, Cell Metab 25:1243,2017.

COME SI MISURA LA RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS)?

La scorsa settimana vi ho descritto cos’è la rigidità arteriosa (arterial stiffness). Vediamo oggi come si può valutare. Per una misurazione diretta della rigidità arteriosa è necessario misurare contemporaneamente, in maniera accurata e nello stesso segmento arterioso, l’andamento istantaneo della pressione e del calibro del vaso. Ciò è ottenibile solo con metodiche invasive, attraverso un accesso intraarterioso e l’uso contemporaneo di trasduttori di pressione e di sensori di flusso. La necessità dell’approccio invasivo ha ovviamente limitato lo sviluppo e l’applicazione clinica su larga scala di tale procedura.

È possibile però stimare la rigidità di un vaso o dell’intero sistema arterioso in maniera non invasiva. Negli anni sono state proposte molte misure non invasive di rigidità arteriosa, tra le quali la distensibilità/compliance arteriosa, la velocità dell’onda sfigmica, l’augmentation aortica (ossia il contributo dell’onda riflessa alla pressione differenziale aortica), la compliance oscillatoria, la pressione differenziale, e l’ambulatory arterial stiffness index derivato dalla relazione tra pressione arteriosa sistolica e diastolica durante un monitoraggio pressorio nelle 24 ore. Ciascuna di queste misure ha importanti limitazioni che ne condizionano l’utilizzo.

Tra le misure di arterial stiffness, si è nel tempo affermata come parametro di riferimento la velocità dell’onda sfigmica o di polso (pulse wave velocity, PWV), che trova fondamento sulla nozione che con l’aumento della rigidità di un’arteria aumenta la velocità di trasmissione dell’onda sfigmica. La PWV è considerata il gold standard tra gli indici di stiffness, in quanto mantiene il suo valore predittivo e prognostico anche dove altri indici si rivelano inaffidabili. La PWV si misura in metri al secondo e rappresenta la velocità con cui il flusso generato dal cuore si propaga all’interno dell’albero arterioso. Valori normali di questo parametro sono intorno ai 9-10 m/s, valore che aumenta con l’incremento della stiffness. Vi sono differenti metodi per misurare la PWV. L’arrivo dell’onda sfigmica è registrato in una arteria prossimale, come la carotide comune, e contemporaneamente in una distale, come la radiale o la femorale. La posizione superficiale di queste arterie rende possibile la valutazione dell’onda in maniera non invasiva (tonometrica, piezoelettrica, Doppler, impedenziometrica). Il tempo di ritardo tra l’arrivo di una parte dell’onda nei due siti e la distanza misurata tra essi permette la valutazione della PWV. La distanza misurata è una stima della reale lunghezza del letto arterioso esplorato, che non è perfettamente rettilineo. La PWV aortica può essere studiata anche tramite risonanza magnetica. La metodica ha il vantaggio di descrivere la reale lunghezza del vaso, anche se i costi e le difficoltà tecniche nell’eseguire studi con dei forti campi magnetici ne hanno limitato l’utilizzo.

Per approfondimenti si veda: Schillaci G, Parati G. Ambulatory arterial stiffness index: merits and limitations of a simple surrogate measure of arterial compliance. J Hypertens 2008; 26:182-185.

LA METFORMINA: UN FARMACO ANTIDIABETICO…MA NON SOLO

Abbiamo già parlato della Metformina e della sua attività antidiabetica, dovuta all’attivazione del sistema LKB1/AMPK (Liver Kinase B1/AMP-activated protein Kinase). Negli organismi multicellulari il sistema LKB1/AMPK ha acquisito ruoli specializzati nella regolazione sistemica oltre che intracellulare del metabolismo energetico. Gli effetti dell’attivazione di questo sistema da parte della Metformina si traducono in numerose e favorevoli modificazioni metaboliche che vanno ben oltre l’effetto ipoglicemizzante: esse comprendono infatti, oltre al minor assorbimento e alla maggiore utilizzazione del glucosio, la riduzione dell’insulinemia, la diminuzione dell’appetito e del peso corporeo, l’aumento della β-ossidazione degli acidi grassi e la riduzione dello stress ossidativo. Queste potenzialità della Metformina contribuiscono, in aggiunta all’attività antidiabetica, alla protezione cardiovascolare esercitata da questo farmaco. Ma di questo parleremo in altra occasione.

Più di quaranta anni fa, sulla base di dati ottenuti in varie specie animali, l’uso della Metformina venne proposto per la prevenzione dell’invecchiamento. A questi dati sperimentali, peraltro non univoci e di entità variabile secondo le specie studiate, si è successivamente aggiunta l’osservazione che i pazienti diabetici trattati con Metformina presentano una minore letalità per tutte le cause, non solo quelle cardiovascolari. I benefici effetti della Metformina sulla sopravvivenza mostrano una stretta somiglianza con quelli indotti dalla restrizione calorica, che in tutti i mammiferi prolunga la durata della vita e riduce l’incidenza o ritarda la comparsa di malattie legate all’invecchiamento. Questo fenomeno ha trovato successivamente spiegazione nel rilievo che l’evento biologico fondamentale indotto dalla restrizione calorica è costituito dalla riduzione dei livelli di insulina e di Insulin Growth Factor-1 (IGF-1) e dall’aumento della sensibilità all’insulina, azioni queste condivise dalla Metformina.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la Metformina è anche in grado di inibire la carcinogenesi sperimentale dei roditori, con un meccanismo indipendente dall’azione ipoglicemizzante. La Metformina, che agisce come “sensibilizzatore” all’insulina negli epatociti, nelle cellule neoplastiche svolge infatti una azione opposta, inibendo l’utilizzazione dell’energia e la proliferazione attraverso una serie di meccanismi molecolari, solo in parte LKB1/AMPK-dipendenti (figura). In fibroblasti embrionali murini e in linee cellulari umane provenienti da neoplasie di colon, mammella e prostata l’attivazione del sistema LKB1/AMPK porta all’inibizione della sintesi proteica e della differenziazione e proliferazione cellulare, così come dell’enzima mTOR (mammalian Target Of Rapamicin), una trasferasi che regola la sintesi proteica e la crescita cellulare. La Metformina inibisce poi direttamente STAT3 (Signal Transducer and Aactivator of Transcription 3) un fattore di trascrizione che modula l’espressione di numerosi geni coinvolti nella proliferazione cellulare e nell’apoptosi. In effetti, numerosi studi retrospettivi indicano che nei diabetici trattati con Metformina la letalità per neoplasie è significativamente minore (di circa il 40%) rispetto a quelli trattati con qualsiasi altro ipoglicemizzante.

Anche se le conoscenze finora acquisite su queste nuove potenzialità di Metformina appaiono molto promettenti, soprattutto in considerazione della maneggevolezza del farmaco anche in soggetti non diabetici, occorrerà certamente un lungo iter di ricerca per accertarne il reale valore.

LA LIPOPROTEINA(a): COME RIDURLA?

Da Chiara Pavanello

Elevate concentrazioni di Lp(a) (> 50 mg/dL) rappresentano un fattore di rischio cardiovascolare ormai riconosciuto, come abbiamo spiegato la scorsa settimana. Ma quali sono i farmaci in grado di ridurle? Ad oggi non esistono prodotti in commercio con questa indicazione specifica e nessun trial clinico è stato condotto a tal fine. Analisi post hoc di trials clinici con farmaci ipolipidemizzanti già in uso clinico hanno rivelato addirittura un effetto peggiorativo delle statine sulle concentrazioni di Lp(a) (+ 10-20%) [Yeang, J Clin Lipidol 2016], mentre dati positivi sono stati individuati in studi con acido nicotinico (e derivati), mipomersen e gli inibitori di PCSK9. Tra questi solo gli ultimi sono effettivamente in commercio in Europa e sebbene consentano di ottenere riduzioni di Lp(a) intorno al 20%, la prescrivibilità è ridotta e limitata alle ipercolesterolemie genetiche o resistenti [Tsimikas JACC 2017].

Lo studio HERS (Heart and Estrogen/Progestin Replacement Study) ha individuato un effetto benefico della terapia combinata di estrogeni e progestinici nella riduzione della Lp(a) di circa 15-20%, con un maggior beneficio nelle donne in post-menopausa con concentrazioni di Lp(a) nel quartile superiore (55-236 mg/dL) [Shlipak et al JAMA 2000]. In ogni caso generalmente il trattamento con estrogeni non rappresenta un’opzione terapeutica perché aumenta il rischio di trombosi.

Negli ultimi anni però lo sviluppo scientifico e tecnologico ha consentito la messa a punto di farmaci davvero innovativi, da poco entrati in sperimentazione clinica. Si tratta di “oligonucleotidi antisenso” (ASO), che agiscono bloccando la sintesi epatica dell’apo(a), indispensabile per la formazione della lipoproteina (nel dettaglio la prossima settimana). Dati preliminari hanno dimostrato una riduzione superiore all’80%, dipendente dalla dose e dalle concentrazioni plasmatiche basali di Lp(a); inoltre hanno dimostrato la capacità di ridurre la concentrazione di fosfolipidi ossidati sulla lipoproteina stessa: i veri responsabili della sua aterogenicità [Viney et al Lancet 2016].

Come la storia del colesterolo LDL insegna, una volta individuata la Lp(a) come fattore di rischio cardiovascolare, solo studi clinici con farmaci che siano in grado di ridurla potranno confermare che questo porti effettivamente a un miglioramento della condizione cardiovascolare. Ma per questo dovremo aspettare ancora un po’!

Shlipak MG, Simon JA, Vittinghoff E, et al. Estrogen and progestin, lipoprotein(a), and the risk of recurrent coronary heart disease events after menopause. JAMA 2000, 283:1845–1852.
Tsimikas S. A test in context: Lipoprotein(a): diagnosis, prognosis, controversies, and emerging therapies.J Am Coll Cardiol 2017, 69:692-711.
Viney NJ, van Capelleveen JC, Geary RS et al. Antisense oligonucleotides targeting apolipoprotein(a) in people with raised lipoprotein(a): two randomised, double-blind, placebo-controlled, dose-ranging trials. Lancet 2016, 388:2239-2253.
Yeang C, Hung MY, Byun YS, et al. Effect of therapeutic interventions on oxidized phospholipids on apolipoprotein B100 and lipoprotein(a) J Clin Lipidol 2016, 10:594–603.

IL CETRIOLO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Originario dell’Asia e probabilmente importato dai romani nel bacino del mediterraneo, il cetriolo è un ortaggio appartenente alla famiglia delle Cucurbitacee. In Italia è coltivato soprattutto nel Lazio, la varietà più comune è denominata Verde Lungo d’Italia. La composizione di questo ortaggio è particolarmente interessante per il grande contenuto di acqua (97%) e di micronutrienti. Tra questi, il potassio è presente in maggior quantità, seguito dalle vitamine C e A. Il cetriolo è ancora molto usato nella cosmesi come idratante e decongestionante. Un tempo veniva usato come lenitivo nelle scottature e, grazie al contenuto di zolfo, come adiuvante nella cura della pelle. Il cetriolo contiene acido tartarico che è un buon antiossidante, molto usato nell’industria alimentare e giudicato dalla Agenzia Sicurezza Alimentare Europea (EFSA) un additivo sicuro. E’ un ortaggio sicuramente consigliato nelle diete ipocaloriche sia per il suo basso valore energetico, sia per le proprietà diuretiche.

LA RICETTA. Salsa Tzatziki

Ingredienti (per 6 persone): 2 spicchi di aglio, 250 ml di yogurt scremato, 2 cucchiaini di olio di oliva extravergine, 1 cetriolo, sale, un rametto di aneto e succo di limone.
In un mixer mettere l’aglio sbucciato, lo yogurt, l’olio, il succo di limone. Frullare fino ad ottenere una crema liscia. Salare e aggiungere il cetriolo tagliato a piccoli pezzi. Guarnire con l’aneto. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 34,65. Proteine: 1,44 g. Lipidi: 2,19 g; saturi 0,32 g; insaturi 0,15 g; monoinsaturi 1,42 g. Carboidrati: 2,26 g. Fibra: 0,18 g.

LA LIPOPROTEINA(a) COME FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Da Chiara Pavanello

La settimana scorsa vi abbiamo già anticipato l’associazione tra lipoproteina(a), una lipoproteina molto simile alle LDL, e malattia cardiovascolare. Chi ha una concentrazione plasmatica di Lp(a) elevata (superiore a 50 mg/dL) presenta infatti un rischio per infarto del miocardio, ictus e arteriopatia periferica 4 volte superiore rispetto a chi ha basse concentrazioni [Clarke et al., NEJM 2009, Kamstrup et al. JAMA 2009], anche quando il livello di colesterolo LDL è normale! Recentemente, è stato riconosciuto un ruolo causale di questa lipoproteina nella patogenesi della calcificazione della valvola aortica [Vongpromek et al. J Int Med 2015]. Ulteriori conferme arrivano dallo studio CardiogramPlus4CD: in quasi 64000 soggetti con infarto miocardico, il gene LPA, che determina le concentrazioni plasmatiche di Lp(a), era quello con l’associazione più forte con la patologia coronarica (anche più delle LDL!) [CardiogramPlus4CD Consortium, Nat Genet 2013].

La Lp(a) quando in elevate concentrazioni infatti sembra essere patologica principalmente mediante due meccanismi (figura): come le LDL, viene ossidata facilmente e questo la porta ad accumularsi nella parete dei vasi, promuovendo la risposta infiammatoria e il processo aterosclerotico; si sostituisce al plasminogeno, al quale è strutturalmente simile, e ne limita la funzione, cioè quella di “sciogliere” i coaguli di sangue nei vasi sanguigni.

Le linee guida della Società Europea dell’Aterosclerosi considerano livelli ottimali di Lp(a) < 50 mg/dL, anche se alcuni studi epidemiologici, ad esempio il Copenhagen Heart Study, hanno dimostrato un rischio elevato anche a concentrazioni inferiori (20-30 mg/dL).

CARDIoGRAMplusC4D Consortium, Deloukas P, Kanoni S, et al. Large-scale association analysis identifies new risk loci for coronary artery disease. Nat Genet 2013;45:25–33.
Clarke R, Peden JF, Hopewell JC, et al., PROCARDIS Consortium. Genetic variants associated with Lp(a) lipoprotein level and coronary disease. N Engl J Med 2009;361:2518–28.
Kamstrup PR, Tybjærg-Hansen A, Steffensen R, et al. Genetically elevated lipoprotein(a) and increased risk of myocardial infarction. JAMA 2009;301:2331–9.
Vongpromek R, Bos S, Ten Kate GJ, et al. Lipoprotein(a) levels are associated with aortic valve calcification in asymptomatic patients with familial hypercholesterolaemia. J Intern Med 2015; 278:166–73.

RIDUZIONE INTENSIVA DELLA PRESSIONE ARTERIOSA IN PAZIENTI IPERTESI ANZIANI

Lo studio che vi proponiamo oggi, pubblicato su Journal of the American College of Cardiology, ha valutato efficacia e sicurezza di strategie di riduzione intensiva della pressione arteriosa in pazienti ipertesi anziani (età ≥65 anni). I ricercatori hanno combinato i risultati di 4 studi clinici che hanno coinvolto 10.857 pazienti ipertesi anziani con un follow-up medio di 3,1 anni. La riduzione intensiva della pressione arteriosa (sistolica <140 mmHg) è associata a una riduzione del 29% degli eventi cardiovascolari, del 33% della mortalità cardiovascolare e del 37% dello scompenso cardiaco, rispetto a una strategia di riduzione della sistolica a valori <150 mmHg. L’incidenza di infarto miocardico e ictus non differisce fra i 2 gruppi. Non sono state rilevate differenze significative per quanto riguarda l’incidenza di eventi avversi gravi fra i 2 gruppi, ma è stata osservata una tendenza all’aumento dell’insufficienza renale nel gruppo in terapia più aggressiva. Quando si prende in considerazione una strategia di controllo intensivo della pressione arteriosa, bisogna soppesare attentamente i benefici, rispetto ai rischi potenziali.

LEGUMI: LE LENTICCHIE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Originarie dei paesi mediterranei, sono state coltivate dalla più remota antichità: al museo del Louvre sono esposte lenticchie vecchie di ottomila anni. In Italia ne vengono coltivate parecchie varietà: le più conosciute sono di Altamura e di Castelluccio. Quest’ultima è una specie a seme piccolo, particolarmente gustosa, che ha ottenuto l’indicazione geografica protetta (IGP). Ricche di ferro, di magnesio, di fosforo e di zinco, le lenticchie hanno un notevole contenuto proteico (22,7 g. per 100 g.). Come tutti i legumi, mancano gli amminoacidi essenziali cisteina e metionina: per ovviare a questa carenza è utile associarli ai cereali. I grassi sono modestissimi e ne fanno un alimento indicato nelle dislipidemie, anche per il contenuto di fibra insolubile che contribuisce a mantenere costante il livello glicemico.

LA RICETTA. Hamburger di lenticchie

Ingredienti (4 persone): 200 g. di lenticchie secche, una carota, mezza cipolla, prezzemolo e 20 g. di olio d’oliva extravergine.
Tritare le verdure e aggiungere le lenticchie precedentemente ammollate. Coprire d’acqua e portare a cottura per circa 30 minuti. Frullare il composto e aiutandosi con un coppapasta formare gli hamburger. Cuocere in padella antiaderente con un filo di olio. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 150,11. Proteine: 7,17 g. Lipidi: 5,63 g; saturi 0,80 g; insaturi 0,53 g; monoinsaturi 3,88 g. Carboidrati: 18,27 g. Fibra: 5,44 g.

RESTRIZIONE CALORICA O DIGIUNO INTERMITTENTE PER PERDERE PESO?

È noto che gli individui in sovrappeso, e ancor di più quelli decisamente obesi, debbono ridurre il peso corporeo per diminuire il rischio cardiovascolare. Ma come fare per raggiungere questo obbiettivo?

Le linee guida indicano nella restrizione calorica (RC), caratterizzata da una riduzione nell’assunzione giornaliera di cibo, l’approccio ideale. Ma molti individui hanno difficoltà a seguire un regime alimentare di questo tipo. In tempi recenti si è andata affermando l’alternativa del cosiddetto digiuno a giorni alterni (Alternate Day Fasting, ADF). Si tratta di alternare giorni di “semi-digiuno”, in cui l’apporto calorico è ridotto al 25% dell’ideale (circa 500 kcal), a giorni di “libertà” in cui è concessa un’alimentazione completamente libera, senza alcuna restrizione calorica.

Lo studio che vi proponiamo oggi, coordinato dall’Università dell’Illinois a Chicago, ha esaminato 100 soggetti obesi, randomizzati in tre gruppi: controllo, senza intervento dietetico; RC, 75% della necessità energetica tutti i giorni; ADF, 25% e 125% della necessità energetica a giorni alterni. Dopo un anno di intervento dietetico, la riduzione del peso corporeo è stata simile nei due gruppi: RC -5.3%, ADF -6.0% rispetto al gruppo controllo. Tuttavia, il numero di drop-outs (individui che non hanno completato lo studio per mancata aderenza al regime alimentare) è stato superiore nel gruppo ADF (38%) che nel gruppo RC (29%), a suggerire che il digiuno a giorni alterni non è una soluzione sostenibile a lungo termine per perdere peso.

JAMA Intern Med Published online May 1, 2017. doi:10.1001/jamainternmed.2017.0936