Lo scopo dello studio che vi proponiamo oggi era di esplorare la relazione tra l’intensità dei trattamenti ipolipemizzanti e i cambiamenti temporali del volume della placca coronarica valutati utilizzando la tomografia coronarica computerizzata (CTA). Sono stati esaminati 467 pazienti che si sono sottoposti a CTA ed esami di laboratorio seriali, con intervalli minimi di 2 anni (mediana 3.2 anni). Tra questi sono stati arruolati 147 pazienti con almeno una placca coronarica. Pazienti con valori di colesterolo LDL inferiori a 70 mg/dl hanno mostrato una significativa attenuazione nella progressione della placca in termini di volume rispetto a quelli con valori maggiori o uguali a 70 mg/dl. L’analisi multivariata ha confermato l’associazione tra livelli di colesterolo LDL maggiori o uguali a 70 mg/dl e la progressione annuale della placca. Un’ulteriore conferma che un rigoroso controllo dei livelli di colesterolo LDL attenua in modo significativo la progressione dell’aterosclerosi coronarica.
MENO ALCOL (SENZA ABOLIRLO) PER UNA BUONA SALUTE
La RAHRA (Reducing AlcoHol Related Harm) ha appena pubblicato le linee-guida Europee sul corretto consumo di alcol per proteggere la salute. Sono uno strumento di salute pubblica presentato dalla Commissione Europea per uniformare le indicazioni degli Stati dell’Unione, da rivolgere soprattutto ai consumatori per favorire il diritto a scelte informate sui rischi connessi al consumo di alcol. La novità principale delle nuove raccomandazioni consiste nel non superare i 10-20 grammi di alcol al giorno (1 bicchiere di vino), sia per gli uomini che per le donne. Finora il consumo “a basso rischio” medio giornaliero da non superare variava, tra gli Stati Membri, dai 20 ai 48 grammi di alcol per gli uomini e dai 10 ai 32 grammi per le donne. L’aver ridotto questi livelli risponde a due obiettivi a livello Comunitario: ridurre i danni causati dall’alcol e attivare programmi di prevenzione. Altri consigli delle linee-guida sono rivolti alle donne in gravidanza, alle quali si suggerisce di astenersi completamente dall’assumere alcol.
I livelli massimi di concentrazione di alcol nel sangue consentiti alla guida sono la misura più comunemente usata per ridurre il rischio di danni alcol-correlati in Europa e quella più armonizzata a livello comunitario. In linea con le raccomandazioni della Commissione Europea, il limite di tasso alcolemico per tutti i conducenti è di 0,5 g/l, un limite inferiore è comunemente indicato in numerosi Stati Membri per i conducenti giovani o inesperti (0,2 g/l) e per i conducenti professionali o commerciali (0,2 g/l).
LE IPERCOLESTEROLEMIE FAMILIARI RECESSIVE
Dal Prof. Stefano Bertolini, Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Genova
L’espressione clinica delle forme di ipercolesterolemia recessiva si realizza quando l’individuo riceve da ciascun genitore un allele mutato di un determinato gene. I due alleli patologici possono essere identici (paziente Omozigote) o differenti (paziente Eterozigote Composto). Il portatore Eterozigote di un allele mutato risulta clinicamente asintomatico.
Tre forme di Ipercolesterolemia Familiare Recessiva, per quanto relativamente rare ed in alcuni caso sotto-diagnosticate, meritano menzione: l’Ipercolesterolemia Recessiva (ARH), la Sitosterolemia e la Deficienza di Lipasi Lisosomiale Acida.
L’Ipercolestereolemia Recessiva ARH si realizza per difetto biallelico del gene LDLRAP1 (localizzato sul braccio corto del cromosoma 1: 1p36-p35) che codifica per una proteina di 308 amino acidi indispensabile per l’internalizzazione del complesso LDLR/LDL nelle cellule polarizzate, in particolare negli epatociti. Clinicamente ARH è caratterizzata da concentrazioni elevate di colesterolo LDL: 557.7±101.2 mg/dl (media±DS), 553.5 mg/dl (mediana), 479.5-595.5 mg/dl (range interquartile), 372-835 mg/dl (min-max), da xantomatosi cutanea e tendinea e da compromissione cardiovascolare che si esprime più tardivamente (dopo la seconda decade) rispetto a quella osservata negli Omozigoti ed Eterozigoti Composti da mutazioni del gene LDLR. Questa patologia risulta diffusa in tutto il bacino del mediterraneo e presenta una eccezionale prevalenza in Sardegna (1:34.000). Il trattamento su basa sulla somministrazione di statine di seconda generazione ad alte dosi associate all’ezetimibe e sulla LDL-aferesi.
La Sitosterolemia si realizza per associazione di un allele difettoso di origine paterna con un allele difettoso di origine materna del gene ABCG5 o del gene ABCG8. Questi due geni sono localizzati in posizione 3’¬5’ – 5’®3’ sul braccio corto del cromosoma 2 (2p21) e codificano per due proteine, Sterolina-1 di 651 amino acidi e Sterolina-2 di 673 amino acidi localizzate sulla membrana luminale degli enterociti dell’intestino tenue prossimale e sulla membrana apicale degli epatociti corrispondente al lume del canalicolo bilare. Le due proteine funzionano in coppia come eterodimero determinando l’escrezione di parte del colesterolo e degli steroli vegetali assorbiti dall’enterocita al lume intestinale e dall’epatocita al canalicolo biliare. Una mutazione biallelica di uno dei due geni, ABCG5 o ABCG8, determina un abnorme assorbimento e accumulo corporeo di steroli vegetali (sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo, brassicasterolo, avenosterolo, ergosterolo) e di colesterolo. In condizioni normali circa il 50% del colesterolo presente nel lume intestinale viene assorbito, mentre la quota assorbita di steroli vegetali che vengono introdotti con la dieta (150-450 mg/die) non supera l’8%. Nella Sitosterolemia la quota di steroli vegetali assorbita supera il 60% e le concentrazioni plasmatiche di fitosteroli sono 30-100 volte superiori a quelle normali (v.n.: sitosterolo 0.300±0.117 mg/dl, campesterolo 0.448±0.182 mg/dl, stigmasterolo 0.067±0.060 mg/dl, brassicasterolo 0.028±0.012 mg/dl, avenosterolo 0.021±0.010 mg/dl). Le mutazioni con perdita di funzione del gene ABCG5 sono prevalenti nella popolazione Asiatica (Cinesi, Giapponesi) mentre le mutazioni del gene ABCG8 prevalgono nei Caucasici. La reale prevalenza di questa patologia delle varie popolazioni è comunque attualmente ignota. Si tratta certamente di una patologia rara ma è presumibile che sia anche sotto diagnosticata dato che la diagnosi di certezza richiede il dosaggio plasmatico dei fitosteroli mediante gas cromatografia e spettrometria di massa o l’identificazione di mutazioni causative di ABCG5 o ABCG8. Attualmente in letteratura sono stati riportati più di 130 casi di pazienti affetti da sitosterolemia, in prevalenza soggetti della prima e seconda decade di vita. I casi indice ad oggi geneticamente caratterizzati sono 48 per il gene ABCG5 e 58 per il gene ABCG8, con 33 differenti mutazioni di ABCG5 e 36 di ABCG8 in omozigosi o etererozigosi composta. L’espressione clinica della Sitosterolemia è caratterizzata da: 1) valori plasmatici elevati di steroli totali, in larga prevalenza costituiti da colesterolo (362.9±181.3 mg/dl (media±DS), 307.5 mg/dl (mediana), 222-456 mg/dl (range interquartile), 134-870 mg/dl (min-max) e da notevole incremento dei principali fitosteroli: sitosterolo (31.5±22.6 mg/dl (media±DS), 24.6 mg/dl (mediana), 17.7-42.4 mg/dl (range interquartile), 2-97 mg/dl (min-max) e campesterolo (17.4±16.2 mg/dl (media±DS), 12.6 mg/dl (mediana), 8.4-19.1 mg/dl (range interquartile), 2.3-78.5 mg/dl (min-max); 2) xantomi tendinei e cutanei (piani e tuberosi); 3) alterazioni ematologiche (sferocitosi, anemia emolitica, macrotrombocitopenia); 4) artralgie; 5) prematura aterosclerosi coronaria ed aortica in alcuni pazienti. Degna di nota è la concentrazione particolarmente elevata di steroli totali (quasi elusivamente costituita da colesterolo) che si osserva nei lattanti e nei primi anni di vita (£ 5 anni); tali valori, con una mediana di 640 mg/dl ed un range interquarile di 500-750 mg/dl, possono indurre ad una errata diagnosi di ipercolesterolemia familiare omozigote a carattere dominante o recessivo.
I pazienti con Sitosterolemia sono notevolmente responsivi alla dieta a basso contenuto in grassi saturi e colesterolo associata con riduzione drastica di steroli vegetali (ridotto introito di oli vegetali, margarine, olive, broccoli, cavolini di Bruxelles, cavolfiori, noci, nocciole, mandorle, cioccolato, germe di grano, pistacchi, semi di sesamo e di girasole, avocado, frutti di mare come le vongole, capesante e ostriche che contengono gli steroli vegetali derivanti dalle alghe). Farmaco di elezione da associare alla dieta, in alternativa alle resine sequestranti gli acidi biliari, è l’Ezetimibe che inibendo la proteina NPC1L1 riduce l’assorbimento intestinale del colesterolo e degli steroli vegetali.
La terza forma di Ipercolesterolemia Recessiva è dovuta alla Deficienza di Lipasi Lisosomiale Acida. Questo enzima (LAL), di 399 amino acidi, viene codificato dal gene LIPA localizzato sul braccio lungo del cromosoma 10 (10q23.2-q23.3) ed espresso virtualmente in ogni cellula, ma sopratutto nelle cellule epatiche, nei fibroblasti, macrofagi e linfociti. A livello intracellulare nei lisosomi l’enzima LAL idrolizza gli esteri del colesterolo ed i trigliceridi delle lipoproteine contenenti apolipoproteina B (in particolare lipoproteine LDL) che entrano nelle cellula epatica mediante specifici recettori. All’idrolisi fa seguito la liberazione di colesterolo libero e di acidi grassi che inibiscono la produzione di nuove lipoproteine, riducono l’espressione di recettori LDL ed attivano la produzione di lipoproteine ad alta densità (HDL). La totale assenza di attività enzimatica LAL è la causa di una gravissima patologia (malattia di Wolman) che porta alla morte entro il primo anno di vita. Nei casi in cui almeno uno degli alleli patologici del gene LIPA permette una attività enzimatica residua, anche se estremamente ridotta al 5-10% della norma nei linfociti e 12-24% nei fibroblasti e negli epatociti, la patologia, denominata malattia da accumulo degli esteri del colesterolo (CESD), è compatibile con la sopravvivenza e si esprime ad una età variabile dalla prima infanzia all’età adulta in relazione alla maggiore o minore gravità delle mutazioni bialleliche di cui il singolo individuo è portatore. Attualmente più di 150 pazienti sono stati descritti in letteratura, con espressione clinica entro la prima decade di vita nel 60% dei casi ed entro la prima e seconda decade nel 78% dei casi. Ad oggi 132 pazienti Omozigoti o Eterozigoti Composti sono stati geneticamente caratterizzati. La mutazione LIPA più frequente (circa il 60% degli alleli mutati) è costituita dalla sostituzione di una adenina per una guanina nell’ultimo nucleotide dell’esone 8 (c.894G>A); tale mutazione, pur inducendo una alterazione di circa il 95% dell’RNA messaggero e conseguentemente della proteina enzimatica, permette la produzione di una piccola quota (~ 5%) di enzima normale. La prevalenza stimata di questa patologia nella popolazione Caucasica è pari a ~1:200.000 individui. Si ritiene tuttavia che tale prevalenza sia sottostimata per l’assenza di una corretta diagnosi in molti casi. La diagnosi certa richiede infatti, in aggiunta al dosaggio dell’attività enzimatica, l’identificazione dei due alleli patologici mediante sequenza del gene LIPA. La carenza dell’enzima LAL comporta una deficiente idrolisi degli esteri del colesterolo e dei trigliceridi con conseguente ridotta disponibilità intracellulare di colesterolo libero ed acidi grassi; ciò determina l’attivazione della sintesi epatica di lipoproteine e la loro secrezione nel plasma; alla aumentata secrezione si associa anche un aumentato influsso di lipoproteine attraverso i recettori LDL la cui espressione non viene ridotta per la carenza di colesterolo libero. La carenza di colesterolo libero intracellulare è anche la causa della ridotta espressione della proteina ABCA1 necessaria per la produzione di HDL nascenti.
La malattia si esprime clinicamente con epatomegalia nel 99% dei casi, associata a splenomegalia nel 75%, dolori addominali ricorrenti, distensione addominale, vomito, diarrea, rallentato accrescimento corporeo, aumento della concentrazione plasmatica delle transaminasi (AST: 77.7±41.3 IU/L; ALT 100.8±49.8 IU/L), iperlipidemia mista con prevalenza dell’ipercolesterolemia e ridotte concentrazioni di colesterolo HDL (colesterolo totale 314.6±66.8 mg/dl, colesterolo LDL 247.8±57.0 mg/dl, colesterolo HDL 31.2±10.2 mg/dl, trigliceridi 196.7±83.4 mg/dl, apoA-I 90.8±17.2 mg/dl, apoB 184.5±44.3 mg/dl) e prematura aterosclerosi conseguente all’iperlipidemia. A livello epatico il massiccio accumulo di esteri del colesterolo, ed in minor misura di trigliceridi, si manifesta con una steatosi in prevalenza micro-vescicolare che evolve verso una fibrosi progressivamente ingravescente ed una cirrosi micro-nodulare. La terapia d’elezione è oggi costituita dalla terapia sostitutiva mediante infusione dell’enzima LAL ricombinante.
IN ITALIA SI MUORE ANCORA PIÙ DI CUORE CHE DI CANCRO
Nel 2015 in Italia le malattie cardiache hanno causato 149.897 morti, mentre i vari tipi di cancro ne hanno uccisi 124.320. Al terzo posto delle casistiche di mortalità le malattie cerebrovascolari, che hanno causato 57.230 morti.
Per la prima volta l’Istat presenta un rapporto con la serie storica completa dei dati di mortalità per causa negli anni 2003-2014, che consente una lettura approfondita della dinamica del fenomeno nel lungo periodo. Nel 2014, i decessi in Italia sono stati 598.670, con un tasso standardizzato di mortalità di 85,3 individui per 10.000 residenti. Dal 2003 al 2014 il tasso di mortalità si è ridotto del 23%, a fronte di un aumento del 1,7% dei decessi (+9.773) dovuto all’invecchiamento della popolazione.
Sia nel 2003 che nel 2014 le prime tre cause di morte in Italia sono le malattie ischemiche del cuore, le malattie cerebrovascolari e le altre malattie del cuore, anche se i tassi di mortalità per queste cause si sono ridotti in 11 anni di oltre il 35%. Nel 2014, le malattie ischemiche del cuore hanno causato 69.653 decessi (11,6% del totale), le malattie cerebrovascolari 57.230 decessi (9,6%) e le altre malattie del cuore 49.554 decessi (8,3%). Nel 2014 al quarto posto nella graduatoria delle principali cause di morte figurano i tumori della trachea, dei bronchi e dei polmoni (33.386 decessi). Tra i tumori specifici di genere, quelli della prostata sono la decima causa di morte tra gli uomini (7.174 decessi), mentre quelli del seno sono la sesta causa tra le donne (12.201 decessi) e la più frequente di natura oncologica. Demenza e Alzheimer rappresentano la sesta causa di morte, con 26.600 decessi.
Analizzando i trend temporali dei tassi delle principali cause di morte dal 2003 al 20144 si rileva, nella maggior parte dei casi, una diminuzione ma con alcune eccezioni. La demenza e malattia di Alzheimer hanno un andamento crescente fino al 2012, mentre negli ultimi due anni in esame appare una lieve riduzione. La setticemia invece è in aumento in modo quasi costante fino al 2014 (1,3% del totale dei decessi), con un balzo più rapido nel 2011 e nel 2012. Nel 2014 i decessi si sono triplicati rispetto al 2003 soprattutto per effetto della maggiore presenza nella popolazione di anziani multicronici.
Nel primo anno di vita diminuisce la mortalità per malformazioni congenite, sofferenza respiratoria del neonato, ipossia e asfissia intrauterina o della nascita; aumenta quella dovuta alle infezioni.
LE INFEZIONI RESPIRATORIE AUMENTANO IL RISCHIO DI INFARTO. UN MOTIVO IN PIÙ PER VACCINARSI IL PROSSIMO AUTUNNO
Secondo la teoria della “risposta al danno”, il substrato fisiopatologico dei fenomeni aterotrombotici responsabili degli eventi coronarici acuti, come l’infarto del miocardio, è rappresentato dalla presenza di un milieu flogistico cronico. In questo contesto le infezioni batteriche, attraverso meccanismi multipli, possono esserne ragionevole causa o concausa.
Uno studio pubblicato su Internal Medicine Journal dimostra che le infezioni delle vie respiratorie (polmoniti, influenza, bronchiti, ecc) hanno un effetto molto rapido sul rischio di infarto del miocardio. Lo studio ha preso in esame 578 pazienti con infarto, in grado di dare informazioni su una pregressa infezione delle vie respiratorie nei giorni precedenti l’infarto. Il 17% dei pazienti aveva presentato sintomi di malattie respiratorie entro 7 giorni dall’infarto, il 21% nel mese precedente all’infarto. Il rischio di infarto aumentava di ben 17 volte nella settimana successiva a un’infezione delle vie respiratorie, per ridursi poi gradualmente, pur rimanendo ancora elevato per un mese. Anche i pazienti con patologie infiammatorie a carico delle prime vie aeree (raffreddore, faringite, rinite, sinusite) sono risultati a elevato rischio di infarto; in questo caso il rischio è aumentato di 13 volte.
Le infezioni respiratorie possono scatenare un infarto per vari motivi: attraverso un aumento della coagulabilità del sangue, per il danno ai vasi indotto da infiammazione e tossine, per le alterazioni del flusso sanguigno. L’incidenza di infarto in molti Paesi è molto più elevata nei mesi invernali. Questo picco stagionale potrebbe, alla luce di questi risultati, essere dovuto almeno in parte alle infezioni respiratorie. Si dovrebbero quindi prendere tutte le precauzioni possibili per ridurre l’esposizione a tali infezioni; in quest’ottica risulta molto appropriato sottoporsi alle vaccinazioni anti-influenzale e anti-pneumococcica.
COME GESTIRE IL DIABETE NELL’ANZIANO
La prevalenza del diabete tipo 2 aumenta con l’aumentare dell’età; 1 persona su 5 oltre i 75 anni è affetta da questa condizione. E visto che nei 65enni con diabete l’aspettativa di vita può essere di oltre 15 anni, è bene essere rigorosi nella gestione di questa condizione, per evitare di incorrere nelle sue temibili complicanze. Ma la gestione del diabete tipo 2 nell’anziano deve seguire regole ad hoc. Fondamentale è l’attenzione alla dieta e all’attività fisica; i farmaci vanno somministrati tenendo sempre presente il grado di funzionalità renale; gli obiettivi glicemici, soprattutto in presenza di fragilità o di utilizzo di farmaci a rischio ipoglicemia devono essere meno stringenti. Infatti, se un diabete mal controllato aumenta del 48% il rischio di demenza, particolarmente temibile in questa fascia d’età, l’ipoglicemia (nell’anziano intesa come valori inferiori a 70 mg/dl) può provocare cadute, fratture, aumenta il deficit cognitivo, il rischio cardiovascolare e quello di essere ricoverati.
Dieta mediterranea e attività fisica aerobica, alternata a esercizi di resistenza e di stretching sono parte fondamentale del trattamento; necessario anche evitare la sedentarietà, alzandosi dal letto o dalla sedia ogni 90 minuti al massimo. L’educazione all’automonitoraggio della glicemia è molto importante anche in questa fascia d’età, ma andranno scelti glucometri con numeri grandi o con messaggio vocale per le persone con problemi di vista. L’obiettivo da raggiungere anche nell’anziano è un’emoglobina glicata inferiore al 7 per cento, ma in caso di fragilità o di impiego di farmaci a rischio ipoglicemia, si può alzare l’asticella fino all’8 per cento. La metformina resta il farmaco di prima scelta, a meno che non ci sia un’insufficienza renale di grado elevato o uno scompenso cardiaco importante. Tra gli altri anti-diabetici orali la scelta dovrebbe cadere su quelli non a rischio ipoglicemia, quali gli inibitori di DDP-4, da preferire alla repaglinide e alle sulfoniluree, che andrebbero al contrario evitate perché possono dare ipoglicemie gravi (soprattutto la glibenclamide). In un position paper scritto a quattro mani dalla Società Italiana di Diabetologia (Sid) e dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg), tutte le raccomandazioni su come gestire al meglio questa condizione nell’anziano.
COS’È L’IPERTENSIONE?
La pressione arteriosa è la forza con cui il sangue viene spinto dal cuore nel circolo sanguigno. A ogni battito del cuore, il sangue esce dal ventricolo sinistro attraverso la valvola aortica, passa nell’aorta, e si distribuisce in tutte le arterie. Quando il cuore si contrae e il sangue passa nelle arterie, si registra la pressione arteriosa più alta, detta ‘sistolica’ o ‘massima’; tra un battito e l’altro il cuore si riempie di sangue e all’interno delle arterie si registra la pressione arteriosa più bassa, detta ‘diastolica’ o ‘minima’. La pressione arteriosa si misura a livello periferico, usualmente al braccio sinistro, e viene espressa in millimetri di mercurio, con due numeri che indicano la pressione sistolica e diastolica.
La classificazione delle Società Europee dell’Ipertensione e di Cardiologia è relativamente complessa e identifica stadi diversi di ipertensione (Tabella): si considera ‘ottimale’ una pressione sistolica inferiore a 120 mmHg con una pressione diastolica inferiore a 80 mmHg, mentre vengono considerati “normali” valori di pressione sistolica tra 120 e 129 mmHg e/o di diastolica tra 80 e 84 mmHg. Per valori di pressione sistolica tra 130 e 139 mmHg e/o di diastolica 85 e 89 mmHg si parla di pressione “normale alta”, una condizione che non si può ancora definire ipertensione arteriosa, ma che predispone l’individuo a divenire iperteso con il passare degli anni (viene anche definita “pre-ipertensione”). Valori di pressione sistolica superiori a 140 mmHg e/o di diastolica superiori a 90 mmHg definiscono una condizione di IPERTENSIONE ARTERIOSA, che può essere distinta in tre gradi di gravità. Si parla infine di ipertensione ‘sistolica isolata’ in presenza di un aumento della sola pressione sistolica (cioè ≥ 140 mmHg), con valori di diastolica inferiori a 90 mmHg; è una condizione tipica dell’anziano. L’ipertensione è un fattore di rischio maggiore per l’insorgenza di ictus, infarto del miocardio, aneurismi, arteriopatie periferiche, insufficienza renale cronica, retinopatia, decadimento cognitivo e più in generale disabilità, e pertanto la pressione arteriosa deve essere tenuta costantemente sotto controllo.
L’ipertensione arteriosa si distingue in ipertensione primaria e secondaria. Solo nel 4-5% dei soggetti ipertesi l’ipertensione è secondaria a cause identificabili o note, come malattie endocrinologiche o renali, mentre nel 95% dei casi l’ipertensione è primaria o “essenziale”, cioè senza una causa specifica e identificabile. La familiarità, il sovrappeso, la sedentarietà e una dieta ricca di sale possono contribuire allo sviluppo di un’ipertensione primaria.
L’ipertensione arteriosa è una condizione quasi sempre asintomatica, anche se elevati valori pressori spesso si associano a cefalea, sensazione di “testa pesante”, una certa instabilità posturale. Vere e proprie crisi ipertensive si associano invece a sintomatologia cardiovascolare come il dolore toracico, dispnea (cattiva respirazione) e sudorazione fredda. La prevalenza di ipertensione arteriosa è molto elevata nelle popolazioni occidentali e aumenta all’aumentare dell’età. In Italia si stima che almeno 15 milioni di individui siano ipertesi. Solo la metà di essi ne è consapevole. Controllare regolarmente la pressione arteriosa e mantenerla a livelli ottimali attraverso l’adozione di uno stile di vita sano (vedremo domani come), e assumendo specifiche terapie quando necessario, secondo l’indicazione del medico curante, è fondamentale per prevenire eventuali danni di un’ipertensione cronica a carico del cervello, del cuore, delle arterie e dei reni.
IL “TERZO COLESTEROLO”: LA LIPOPROTEINA (a)
Da Chiara Pavanello
Nel 1963 il medico norvegese Kåre Berg, docente di genetica all’Università di Oslo ha scoperto che nel plasma circolava una nuova lipoproteina, strutturalmente analoga alle LDL: la lipoproteina (a) (si legga “lipoproteina a piccola”). Così come le LDL è sintetizzata dal fegato e trasporta colesterolo, ma possiede in aggiunta una grande glicoproteina chiamata apolipoproteina(a), molto simile al plasminogeno (una proteina coinvolta nell’emostasi).
La concentrazione plasmatica di questa lipoproteina varia da individuo a individuo secondo una predisposizione genetica e può andare da valori molto bassi (< 0,2 mg/dL) a valori anche superiori a 300 mg/dL e non è modificata né da fattori dietetici né ambientali. La variabilità dipende dalle diverse forme in cui l’apolipoproteina(a) può esistere e che si differenziano l’una dall’altra per la dimensione, definita dal numero di ripetizioni di una struttura chiamata kringle, perché ricorda la forma di un dolcetto scandinavo (Figura). Più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione di lipoproteina(a) è elevata.
Il gene LPA codifica per le dimensioni dell’apo(a) ed è quindi responsabile del 40-70% della variabilità dei livelli plasmatici di lipoproteina(a). Mentre la funzione fisiologica della lipoproteina(a) non è ancora stata chiarita, numerosi studi hanno dimostrato il suo ruolo come fattore di rischio cardiovascolare. In primis lo studio PROCARDIS (Precocious Coronary Artery Disease) ha infatti individuato due varianti genetiche responsabili della produzione di una lipoproteina(a) piccola (quindi in elevate concentrazioni) e fortemente associate ad una maggior incidenza di eventi coronarici.
Così come le LDL, infatti, la lipoproteina (a) può rimanere intrappolata a livello della tonaca intima dei vasi sanguigni contribuendo allo sviluppo dell’aterosclerosi e allo stesso tempo sembra promuove la trombosi, poiché sostituendosi al plasminogeno impedisce la dissoluzione dei coaguli di sangue.
Tsimikas S. A test in context: Lipoprotein(a): diagnosis, prognosis, controversies, and emerging therapies. J Am Coll Cardiol. 2017; 69:692-711.
INTEGRATORI PER IL CONTROLLO DEL COLESTEROLO – LE PROTEINE DI SOIA
La soia (Glycine max) è una pianta erbacea della famiglia delle leguminose, originaria dell’Asia e oggi coltivata in tutto il mondo per l’alimentazione dell’uomo e degli animali di allevamento. È ricca in proteine (36-46% a seconda delle varietà), carboidrati solubili (15%) e fibre (15%). Rispetto ad altri legumi, ha un contenuto particolarmente elevato di aminoacidi essenziali.
Le proprietà nutrizionali e gli effetti sulla salute della soia sono stati oggetto di ampio studio, con l’epidemiologia a dimostrare un’associazione inversa tra rischio cardiovascolare e consumo di soia, prevalentemente ascritta alle sue proprietà ipocolesterolemizzanti. La letteratura scientifica ha nel tempo attribuito tali proprietà a diversi componenti della soia, come gli isoflavoni, fitoestrogeni che si legano al recettore degli estrogeni ed esercitano attività estrogeno-simili.
Nel 1980 i ricercatori del Centro coordinavano uno studio multicentrico, pubblicato sulla prestigiosa rivista “The Lancet”, che dimostrava l’efficacia di una dieta ricca in proteine di soia nel ridurre i livelli di colesterolo-LDL in pazienti ipercolesterolemici. L’attività ipocolesterolemizzante è attribuibile alla capacità di alcune specifiche proteine, la beta-conglicinina (vicilina, 7S globulina) e la glicinina (legumina, 11S globulina), e peptidi di aumentare l’espressione dei recettori LDL, e quindi accelerare il catabolismo delle LDL (il meccanismo attivato indirettamente dalle statine e dal riso rosso fermentato, vedi post precedente di questa serie).
Tuttavia l’affermazione delle proprietà ipocolesterolemizzanti delle proteine di soia è stata nel tempo controversa. Una meta-analisi di 38 trials condotti tra il 1967 e il 1994 concludeva che le proteine di soia riducono il colesterolo LDL del 12.9%, il che ha indotto la Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ad approvare nel 1999 un “claim”(vedi il primo post di questa serie), che affermava che un consumo giornaliero di 25 g di proteine di soia può ridurre il rischio cardiovascolare. Meta-analisi successive dimostravano un’efficacia minore delle proteine di soia, con riduzioni del colesterolo LDL del 4-6%. L’EFSA, l’agenzia europea per la sicurezza degli alimenti, non ha approvato nel 2012 un “claim” sugli effetti ipocolesterolemizzanti di proteine di soia isolate per mancanza di evidenza. Infine, nel 2015, l’agenzia canadese Health Canada ha approvato un “claim” che afferma l’utilità di proteine di soia isolate o concentrate nel controllo del colesterolo.
L’evidenza, seppur con qualche opinione incerta, dimostra che il consumo di integratori a base di proteine di soia può essere utile nel controllo della colesterolemia nella popolazione generale e in pazienti con lieve ipercolesterolemia e moderato rischio cardiovascolare.
NEL MONDO IL FUMO DI SIGARETTA CAUSA ANCORA TROPPE MORTI
La prestigiosa rivista ‘The Lancet’ pubblica un rapporto basato su dati del ‘Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study’ (GBD), che ha valutato l’effetto del fumo su mortalità e morbilità in 195 nazioni, nei 25 anni che vanno dal 1990 al 2015. Oggi nel mondo il 25% dei maschi e il 5.4% delle femmine fuma, anche se la prevalenza dei fumatori attivi ha fatto registrare una cospicua riduzione a partire dal 1990 (-28,4% nei maschi e -34,4% nelle femmine), più marcata negli anni tra il 1990 e il 2005, che nel decennio successivo (2005-2015). La riduzione della prevalenza dei fumatori mostra un pattern assai eterogeneo sia per area geografica, che per livello socio-economico e sesso, ed è minore nelle donne dei Paesi a basso e medio indice socio-demografico.
Nel 2015, 6,4 milioni di decessi (l’11,5% della mortalità totale nel mondo) erano attribuibili al fumo, con un aumento del 4,7% rispetto al 2005; oltre la metà (52,2%) dei decessi era concentrata in 4 Paesi: Cina, India, USA e Russia). Il fumo è stata la seconda causa di mortalità in entrambi i sessi, dopo l’ipertensione. Dal 2005 al 2015 la mortalità attribuibile al fumo è aumentata (dell’11,4%) in un solo Paese, l’Egitto, ed è diminuita in 82 Paesi sui 195 analizzati. Nel 2015 il fumo era anche la principale causa di disabilità, con particolare impatto su malattie cardiovascolari (41,2%), cancro (27,6%), e malattie respiratorie croniche (20,5%).
Una sfida cruciale per la salute della popolazione mondiale è rappresentata dal riuscire a prevenire sempre più che le persone si accostino alla sigaretta e allo stesso tempo a portare sempre più persone ad abbandonarla. Gli Autori concludono con un invito ad accelerare le misure per il controllo del fumo: “È sicuramente possibile fare di meglio e di più, ma questo richiede un rafforzamento e un’implementazione delle politiche di controllo del fumo, con un maggior impegno politico a livello nazionale e globale, che vada oltre quello che ha portato ai successi degli ultimi 25 anni.”
Smoking prevalence and attributable disease burden in 195 countries and territories, 1990–2015: a systematic analysis from the Global Burden of Disease Study 2015. Lancet 389:13,2017.