FARMACI INNOVATIVI. I siRNA

Si tratta di farmaci innovativi altamente selettivi definiti “small interfering RNA (siRNA) molecules”, da non confondersi con i farmaci antisenso (ASO), di cui parleremo in altra occasione. I siRNA sono brevi sequenze di RNA a doppio filamento, lunghe generalmente 19-21 nucleotidi, che inibiscono l’espressione di geni attraverso l’attivazione del processo naturale di interferenza dell’RNA (RNAi) all’interno delle cellule.

Hanno durata d’azione prolungata, e vanno somministrati per via parenterale. Nel sangue e nei tessuti i siRNA vengono inattivati dalle nucleasi, enzimi che li degradano, impedendone l’accesso alle cellule bersaglio. Per superare questo problema, i nucleotidi che costituiscono il siRNA vengono modificati chimicamente e il farmaco viene poi generalmente somministrato in forma di nanoparticelle lipidiche, che lo proteggono dalla degradazione, e lo veicolano alle cellule bersaglio.

Una volta entrato nella cellula, il siRNA si dissocia in due filamenti singoli, uno dei quali si lega ad alcune proteine formando il complesso RISC (RNA-Induced Silencing Complex). Incorporatosi nel RISC, il siRNA identifica una sequenza complementare presente sull’mRNA bersaglio, formando un complesso siRNA-mRNA, che porta al “silenziamento” (o degradazione) dell’mRNA (Figura). La degradazione dell’mRNA impedisce la sintesi della proteina da esso codificata. Poiché una sequenza di 19-20 nucleotidi compare una sola volta nell’intero mRNA, il siRNA si legherà a un solo mRNA bersaglio, e inibirà la sintesi di una sola proteina. Di qui l’elevata selettività, che ne suggerisce l’impiego in varie malattie. Sono farmaci non ancora in commercio, ma alcuni di essi sono in fase avanzata di sviluppo clinico.

Per ulteriori informazioni: Wittrup A and Lieberman J, Knocking down disease: a progress report on siRNA therapeutics, Nature Reviews Genetics 16:543, 2015

TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA: ARRIVANO GLI INIBITORI DI PCSK9

Da Chiara Pavanello

Ormai in commercio e in pratica clinica da molto tempo, le statine hanno permesso di ridurre considerevolmente i valori di colesterolo LDL e quindi il rischio di eventi cardiovascolari. Nelle forme severe e resistenti di ipercolesterolemia primaria o di dislipidemia mista, o nei casi di intolleranza alle statine non si sono però rivelate sufficienti, prospettando il bisogno di nuovi farmaci.

La richiesta può dirsi esaudita dal momento che da pochissimo sono stati approvati in regime di rimborsabilità dall´Agenzia Italiana del Farmaco due nuovi farmaci: Alirocumab (Praluent) ed Evolocumab (Repatha). Si tratta di due anticorpi monoclonali diretti contro PCSK9 (proteina di cui abbiamo già parlato in precedenza) che impediscono la degradazione del recettore per le LDL, aumentando la capacità del fegato di eliminare le LDL dal sangue. Entrambi vengono somministrati per iniezione sottocutanea una o due volte al mese, tramite l’impiego di siringhe preriempite.

L’efficacia è stata documentata da studi clinici dove, utilizzati in combinazione alle statine per 12 o 24 settimane, hanno portato a riduzioni intorno al 60% del colesterolo LDL rispetto alle statine da sole. La riduzione era limitata a circa il 25% nei soggetti affetti da ipercolesterolemia familiare omozigote, una grave forma di dislipidemia determinata su base genetica. L’azione positiva di questi nuovi farmaci sembra però andare anche oltre: è stato infatti dimostrato che oltre al colesterolo, evolocumab e alirocumab, riducono di circa il 25% la concentrazione plasmatica della lipoproteina (a), una lipoproteina molto simile alle LDL, che rappresenta un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare (ne parleremo presto).

 E gli eventi avversi? I due farmaci sono stati generalmente ben tollerati in tutti gli studi clinici condotti. Gli eventi avversi più comuni sono stati reazioni nel sito di iniezione e reazioni allergiche, nasofaringiti, influenza e infezioni alle alte vie respiratorie. Solo nel 6% dei casi queste hanno comportato la sospensione della terapia, una percentuale che però è risultata non differente da quella del gruppo controllo. Sebbene molto rari, in alcuni studi di fase 3 è stata riportata un’incidenza più elevata di eventi neurocognitivi, come confusione e perdita di memoria in confronto al gruppo trattato con placebo o con terapia standard (0.9% e 1.2% con evolocumab e alirocumab rispettivamente). A tal proposito la Food and Drug Administration, l´autorità competente in materia di regolamentazione dei farmaci, ne ha richiesto una valutazione più approfondita. I dati sono stati presentati recentemente al congresso dell´American College of Cardiology. Ne parleremo presto.

OBESITÀ: SEMPRE PIÙ UN’EPIDEMIA MONDIALE

Come a voi noto, il parametro utilizzato per diagnosticare l’obesità (dal 2013 una malattia!) è l’indice di massa corporea o BMI, calcolato come peso (in kg) diviso per altezza (in mt) elevata la quadrato. Si definisce così “normale” un individuo con BMI compreso tra 18.5 e 24.9; l’individuo è in sovrappeso quando il BMI è tra 25.0 e 29.9, ed è obeso quando il BMI è superiore a 30.

Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si era proposta di arrestare l’epidemia di obesità nel mondo, ma l’obiettivo è clamorosamente fallito, come dimostra uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nel 2015, dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, due erano in sovrappeso; di essi, più di 100 milioni di bambini (5%) e 600 milioni di adulti (12%) erano obesi. Il numero di soggetti obesi è raddoppiato dal 1980 al 2015 in oltre 70 Paesi sui 195 esaminati, ed è costantemente aumentato nella maggioranza dei Paesi analizzati. L’obesità è sempre più prevalente nei bambini che negli adulti, e generalmente più frequente nelle femmine che nei maschi.

Sempre nel 2015, un elevato BMI ha causato 4 milioni di decessi nel mondo, 2.7 dei quali per problemi cardiovascolari. In termini percentuali, l’eccesso di peso rappresenta il 7.1% di tutti i motivi di decesso.

In ITALIA l’eccesso di peso causa oltre il 6% dei casi di morte prematura e disabilità. Le malattie cardiovascolari, che dell’obesità sono una delle conseguenze principali, sono la principale causa di morte nel Paese, con un aumento del 7.9% tra 2005 e 2015. Ma il nostro non è sicuramente il Paese che sta peggio nel mondo. Cina e India, con 15.3 milioni e 14.4 milioni di bambini obesi, sono i Paesi con l’ipoteca più pesante per il futuro; in Brasile e Indonesia il tasso di obesità fra i bambini è triplicato dal 1980 al 2015. La maglia nera per quanto riguarda l’età adulta va all’Egitto con il 35% di soggetti obesi. Stati Uniti (80 milioni) e Cina (57 milioni) si aggiudicano il record per il numero assoluto di adulti obesi.

La fotografia scattata dai ricercatori è inclemente. Dato il ritmo dell’aumento dell’obesità e le difficoltà che le politiche pubbliche sul controllo del peso corporeo stanno incontrando, appare improbabile il raggiungimento dell’obiettivo “crescita zero” che l’OMS si era posto forse con eccessiva leggerezza e che resterà probabilmente lontano anche nei prossimi anni. Perdere peso è di solito uno dei buoni propositi che i soggetti sovrappeso fanno con l’anno nuovo o con l’approssimarsi delle vacanze estive. Dovrebbe invece diventare un impegno per sempre.

The GBD 2015 Obesity Collaborators. New Engl J Med June 12, 2017
DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

INTEGRATORI PER IL CONTROLLO DEL COLESTEROLO – IL PARADOSSO DEL RISO ROSSO FERMENTATO

 

Il riso rosso fermentato (RRF), che deve il suo nome alla caratteristica colorazione (Figura), è un componente tradizionale dell’alimentazione e medicina cinese, utilizzato da secoli per la preparazione di bevande alcoliche, come colorante per i cibi, e per “promuovere la digestione e la circolazione”. Viene ottenuto dalla fermentazione del comune riso da cucina (Oryza sativa) da parte di un lievito, chiamato Monascus purpureus, identificato e isolato nel 1895. Nel 1979 un ricercatore giapponese, Akira Endo, identificò una sostanza presente nel RRF, che chiamò monacolina K, in grado di ridurre la biosintesi del colesterolo attraverso l’inibizione dell’enzima chiave del processo, l’HMG-CoA reduttasi. Nell’anno successivo, lo stesso Endo stabilì l’identità tra monacolina K e lovastatina, il capostipite della formidabile classe di farmaci ipocolesterolemizzanti denominati statine, commercializzato con il nome di Mevacor, che condivide con la monacolina K la capacità di inibire l’HMG-CoA reduttasi. Non stupisce quindi che il riso rosso fermentato, o suoi estratti, abbiano la capacità di abbassare i livelli di colesterolo LDL nel sangue del 10-15%.

Mentre le statine di sintesi sono farmaci, e quindi il loro impiego è strettamente disciplinato dalle agenzie governative che regolano il mercato dei farmaci, l’impiego di estratti di RRF è ammesso nella produzione di integratori alimentari, purché rimanga entro certi limiti fissati dal Ministero (vedi sotto). Tutto ciò ha contribuito ad alimentare il fiorente mercato del riso rosso, spesso pubblicizzato in maniera eccessiva e scarsamente professionale. D’altra parte, l’acquirente medio è attirato dalla possibilità di migliorare il proprio quadro lipidico ricorrendo a un prodotto naturale, e per questo ritenuto privo di rischi.

Se le proprietà ipocolesterolemizzanti del RRF sono documentate, molto poco si sa infatti di eventuali effetti collaterali, potenzialmente simili a quelli delle statine di sintesi, a livello epatico e muscolare. È sorto quindi il problema dell’utilizzo di integratori alimentari contenenti RRF, e quindi monacolina K, anche se a dosaggi inferiori a quelli delle statine di sintesi (5-80 mg/die). Per quanto riguarda gli integratori alimentari in commercio in Italia, il dosaggio massimo consentito di monacolina K è di 3 mg/die, secondo la nota del Ministero della Salute 600.121AG21/2839 del 01/10/2003 e successiva circolare 600.12/AG21/3178 del 12/11/2003. Secondo il Ministero della Salute, “il limite predetto infatti, è stato individuato come il più idoneo ad assicurare adeguate garanzie di sicurezza d’uso e a mantenere entro limiti fisiologici gli effetti del prodotto, considerato il complesso dei costituenti dell’estratto di riso rosso fermentato. Esiste sempre la possibilità di effetti collaterali derivanti dal prolungato uso del riso rosso fermentato, effetti che possono essere paragonabili a quelli prodotti dalle moderne statine di sintesi”. Tuttavia, l’analisi di 12 diversi prodotti a base di RRF commercializzati negli USA ha rivelato contenuti molto variabili di monacolina K (da 0.1 a 10.09 mg per capsula da 600 mg di estratto).

Va ricordato poi che in Italia l’etichettatura degli integratori alimentari contenenti RRF ammette il riferimento a effetti favorevoli sul controllo del colesterolo plasmatico, senza alcun richiamo a un loro utilizzo in chiare situazioni patologiche, come le ipercolesterolemie, che richiedono interventi terapeutici su prescrizione medica.

Quindi, PRESTATE ATTENZIONE quando acquistate integratori alimentari contenenti riso rosso fermentato, e DISCUTETENE SEMPRE L’UTILIZZO CON IL VOSTRO MEDICO.

I CEREALI: L’ORZO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

E’ il più antico cereale. Appartiene alla famiglia delle Graminacee, specie Hordeum Sativum. Viene coltivato bene anche in climi freddi e in terreni poveri. Usato per la panificazione, per alimenti dietetici, alcolici e come succedaneo del caffè, viene impiegato in cucina sotto forma di orzo perlato in minestre e risotti. Composto per il 70 % di carboidrati, 10% circa di proteine e un basso contenuto di grassi, meno del 1,5%, 100 grammi di orzo apportano 318 kcal. con un contenuto di fibra di 9,2 g. Decisamente rilevante il contenuto di sali minerali: potassio magnesio, fosforo e zinco. Ultimamente si è messa in evidenza l’importanza della frazione solubile della fibra: i betaglucani. È stato dimostrato i betaglucani riducono l’assorbimento di colesterolo nell’intestino, riducendo i livelli di LDL colesterolo nel sangue. Infatti l’ EFSA, l’autorità per la sicurezza alimentare europea, ha attestato che “il consumo regolare di betaglucani contribuisce al mantenimento della concentrazione normale di colesterolo nel sangue”.

LA RICETTA. Minestra d’orzo

Ingredienti per 4 persone: orzo perlato 200 g., verza pulita 300 g., piselli secchi 50 g., cavolo nero 250 g., zucchine 280 g., 1 scalogno, un cucchiaino di curcuma, sale, pepe, olio extravergine d’oliva 20 g. Pulire il cavolo e la verza, e tagliarle a listarelle. Affettare lo scalogno e lasciarlo soffriggere a fuoco basso con l’olio. Unire il cavolo nero, la verza, i piselli, l’orzo sciacquato e lasciar cuocere per 5 minuti. Coprire con il brodo, aggiustare di sale e pepe e aromatizzare con la curcuma. Portare a cottura. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 299,27. Proteine: 11,61 g. Lipidi: 7,61 g; saturi 1,14 g; insaturi 0,76 g; monoinsaturi 4,06 g. Carboidrati: 49,17 g. Fibra: 8,76 g.

LA SOSPENSIONE DELLA STATINA NEI PAZIENTI CHE HANNO SUBITO UN INFARTO MIOCARDICO AUMENTA DEL 50% LA PROBABILITÀ DI REINFARTO

I ricercatori coordinati da R.S. Rosenson, del Mount Sinai Hearth, Icahn School of Medicine di New York, hanno esaminato 105.329 assistiti da Medicare dopo aver subito un infarto miocardico, ai quali era stata prescritta una terapia con statine, atorvastatina o simvastatina. 55.567 pazienti (52.8%) hanno seguito con ottima aderenza (>80% delle compresse assunte) la terapia, che invece non è stata tollerata da 1.741 pazienti (1.65%).

Nell’arco di circa 2 anni dal primo infarto, 4.450 dei pazienti esaminati ha subito un secondo infarto miocardico. La percentuale di reinfarto è stata maggiore del 50% nei pazienti che non hanno tollerato la statina rispetto a quelli con ottima aderenza alla terapia.
Lo studio ribadisce l’importanza del mantenimento nel tempo di un’adeguata aderenza alla terapia con statine nei soggetti che sono sopravvissuti a un infarto miocardico, e sono pertanto ad altissimo rischio di subirne un altro. I pazienti che non tollerano le dosi ottimali di statina, e devono quindi interrompere la terapia, esistono alternative efficaci per la prevenzione di un secondo evento cardiovascolare, come l’associazione statina ed ezitimibe, o i nuovi anticorpi monoclonali anti-PCSK9 (di cui parleremo prossimamente).

L’IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE DOMINANTE

Dal Prof. Stefano Bertolini, Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Genova

L’Ipercolesterolemia Familiare è una patologia genetica caratterizzata da elevate concentrazioni del colesterolo nel plasma, in particolare del colesterolo trasportato dalle lipoproteine a bassa densità (LDL). In condizioni normali queste particelle LDL vengono allontanate dal plasma nel corso di un periodo relativamente breve (circa 2.5 giorni dopo la loro produzione) mediante loro legame ad una specifica proteina recettoriale (recettore per le LDL, LDLR); questo processo si realizza prevalentemente (per il 70%) a livello del fegato che trasforma il colesterolo delle LDL in acidi biliare che vengono escreti nella bile. Prescindendo dal difetto genetico specifico (vedi oltre), nell’Ipercolesterolemia Familiare all’accumulo di colesterolo LDL nel plasma consegue la sua deposizione nella parete delle arterie (in prevalenza coronarie, aorta e valvole cardiache), nei tendini (xantomi nel tendine di Achille e nei tendini estensori delle mani) e nella cute (xantomi piani e tuberosi nelle zone sottoposte a compressione o sfregamento). La principale conseguenza di questa patologia è l’aterosclerosi prematura, responsabile di infarto del miocardio, angina pectoris o morte improvvisa. Queste drammatiche manifestazioni cliniche compaiono in età variabile dalla prima decade di vita all’età adulta (40-60 anni) in relazione al tipo di difetto genetico.

L’Ipercolesterolemia Familiare può essere di tipo Dominante o di tipo Recessivo, ed in ogni caso è presente sin dalla nascita. Nelle forme Dominanti, di gran lunga più frequenti delle Recessive, la patologia si esprime anche nell’individuo che eredita un solo allele difettoso portatore di una mutazione (un allele paterno o un allele materno); in questo caso il soggetto viene definito portatore Eterozigote. Quando solo uno dei genitori è un portatore Eterozigote del difetto genetico la probabilità di trasmissione del difetto alla discendenza è del 50%. Nel soggetto Eterozigote, in assenza di terapia preventiva, la patologia cardiovascolare si può esprimere clinicamente prima di 45-55 anni nei maschi e prima dei 55-65 anni nelle femmine. Nel caso in cui entrambi i genitori sono portatori Eterozigoti del difetto genetico la probabilità statistica nella trasmissione del difetto genetico alla discendenza è la seguente: 25% trasmissione di entrambi gli alleli difettosi dei due genitori (soggetto Omozigote vero quando il soggetto eredita dai genitori due alleli che portano una identica mutazione; soggetto Eterozigote Composto quando i due alleli mutati ereditati dai genitori sono differenti); 50% trasmissione di un solo allele difettoso da uno dei genitori (soggetto Eterozigote); 25% trasmissione dei due alleli normali da ciascun genitore (soggetto esente dalla patologia). Dal punto di vista clinico non esiste differenza tra Omozigote vero ed Eterozigote Composto per quanto riguarda la comparsa della patologia cardiovascolare che, in assenza di terapia, può essere fatale entro la prima o seconda decade di vita (per occlusione coronarica o per lesione aortica valvolare o sopravalvolare).

Allo stato attuale delle conoscenze l’Ipercolesterolemia Familiare a carattere Dominante può essere attribuita a mutazioni di almeno tre differenti geni che causano l’ipercolesterolemia con differenti meccanismi: 1) il gene che codifica per il recettore delle LDL, proteina di 692 amino acidi, LDLR localizzato sul braccio corto del cromosoma 19: 19p13; 2) il gene che codifica per la apolipoproteina B-100 – principale proteina delle LDL di 4563 amino acidi necessaria per il loro legame al recettore LDL – (APOB localizzato sul braccio corto del cromosoma 2: 2p24); 3) il gene che codifica per la proteina PCSK9 di 692 amino acidi, che si esprime prevalentemente nel fegato e nell’intestino e che determina la degradazione intracellulare del recettore LDL (PCSK9 localizzato sul braccio corto del cromosoma 1: 1p32).

I difetti con perdita di funzione del gene LDLR (difetto di sintesi o di maturazione della proteina recettoriale, sua incapacità di legare le LDL o di riciclare sulla superficie cellulare dopo una prima internalizzazione endocellulare) sono responsabili di circa a il 94-96% dei casi di Ipercolesterolemia Familiare Dominante e l’accumulo di LDL nel plasma si realizza per loro difettoso allontanamento dal circolo per riduzione del 50% circa del numero di recettori nel paziente Eterozigote o più drastica riduzione (recettori residui 8-30%) fino alla totale assenza di recettori funzionanti nel paziente Omozigote o Eterozigote composto. In  pazienti Italiani con mutazioni del gene LDLR sono stati riscontrati i seguenti valori di colesterolo LDL: in 1562 Eterozigoti 279.6±65.3 mg/dl (media±DS), 275 mg/dl (mediana), 231-323 mg/dl (range interquartile), 130-507 mg/dl (min-max); in 68 Omozigoti/Eterozigoti Composti 619.0±183.7 mg/dl (media±DS), 626.5 mg/dl (mediana), 481-714 mg/dl (range interquartile), 276-1183 mg/dl (min-max). La prevalenza nella popolazione della patologia dovuta a difetti di LDLR è stata stimata per anni di un individuo su un milione (1:1.000.000) per la forma Omozigote o Eterozigote Composto e di un individuo su 500 (1:500) per la forma Eterozigote. Recentemente, con le nuove tecniche di sequenziamento del DNA che hanno notevolmente implementato la probabilità di identificazione dei difetti genetici, le rispettive prevalenze vengono stimate a 1:300.000/1:400.000  per la forma Omozigote e 1:244/1:320 per la forma Eterozigote.

Una prima particolare peculiarità delle mutazioni di LDLR riscontrate in Italia (attualmente più di 250 differenti difetti genetici identificati) è la loro distribuzione sul territorio nazionale estremamente regionalizzata: mutazioni identificate in famiglie del Nord non sono mai state identificate in pazienti originari del Centro o del Sud Italia e viceversa, salvo rarissime eccezioni, ed alcune mutazioni riscontrate in Sardegna sono risultate esclusive della popolazione Sarda. Tale distribuzione ha comportato una più rapida identificazione del difetto genetico nel singolo paziente in base all’origine geografica della famiglia. Una seconda peculiarità è la presenza di “clusters” costituiti da numerose famiglie apparentemente non imparentate che condividono la stessa mutazione (in alcuni casi più di 50 famiglie) e che sono distribuite in aree specifiche e relativamente ristrette del territorio nazionale. In proposito riferiamo alcuni esempi, associabili peraltro ad interessanti notazioni storiche. La mutazione p.(Asp221Gly) denominata FH Padova-1, riscontrata in più di 80 famiglie del Nord, presenta una massima densità in una area geografica che si estende da Venezia a Bergamo e che corrisponde al territorio della Repubblica Veneta Serenissima del XIV secolo. La mutazione FH Savona-Parma, dovuta a duplicazione di 4 basi (ACAT) dell’esone 10 del gene e che da origine ad un recettore troncato p.(Gln474Hisfs*63), è stata identificata esclusivamente in Liguria in più di 50 famiglie originarie dall’alta via Appenninica utilizzata nei secoli scorsi dai mercanti liguri per il trasporto di merci a dorso di mulo verso il nord Europa utilizzando i passi montani tra Liguria ed Emilia; l’analisi di queste famiglie mediante marcatori genetici multiallelici prossimi al gene LDLR e intragenici ha permesso di stabilire l’esistenza di un comune progenitore vissuto 600-800 anni fa. La mutazione p.(Gly549Asp) denominata FH Palermo-1, identificata in più di 70 famiglie, presenta una distribuzione geografica che include alcune regioni del Sud e la Sicilia e che corrisponde al territorio occupato dai Greci nel VI secolo a.c. (Magna Grecia); degno di nota è il fatto che questa mutazione è una delle più frequenti riscontrate attualmente in Grecia in pazienti con Ipercolesterolemia Familiare. L’identificazione di questi “clusters”, comprendenti numerose famiglie ed individui affetti, ha permesso una classificazione basata su differenze di gravità clinica dei più frequenti difetti genetici del recettore LDL presenti in Italia.

I difetti del gene APOB che alterano la capacità di legame dell’apolipoproteina B-100 delle LDL ai recettori LDLR provocano ipercolesterolemia per accumulo nel plasma di LDL con difetto di legame ai recettori che sono qualitativamente e quantitativamente normali. Attualmente 8 differenti varianti del gene APOB sono state inequivocabilmente associate ad ipercolesterolemia; 5 di queste varianti sono localizzate nella porzione della proteina apoB che si lega al recettore LDL e 3 in regioni lontane dal sito di legame. Tali varianti sono responsabili di circa il 5% dei casi di Ipercolesterolemia Familiare Dominante (con maggiore prevalenza nel Nord-Europa). Nei pazienti Eterozigoti per mutazioni APOB la concentrazione plasmatica del colesterolo LDL risulta inferiore a quella degli Eterozigoti per mutazioni LDLR (in 286 Eterozigoti per mutazioni APOB le concentrazioni di colesterolo LDL sono risultate le seguenti: 239.5±55.8 mg/dl (media±DS), 232 mg/dl (mediana), 204-273 mg/dl (range interquartile), 121-452 mg/dl (min-max) ed il rischio relativo di sviluppare una patologia coronarica rispetto a soggetti di pari età e sesso non affetti da ipercolesterolemia è risultato pari a 2.86 e 8.54, rispettivamente per le due patologie. Solo 10 Omozigoti sono stati attualmente descritti in letteratura ed in questi pazienti le concentrazioni di colesterolo LDL variavano da 221 a 352 mg/dl (301.8±49.0 mg/dl).

Alcune varianti del gene PCSK9 codificano per proteine con guadagno di funzione (GOF), ovvero proteine PCSK9 con maggiore capacità di legame ai recettori LDL e maggiore capacità di degradazione intracellulare dei recettori. Attualmente 29 differenti varianti GOF PCSK9 sono state identificate. Nei portatori di queste varianti l’ipercolesterolemia consegue ad una ridotta disponibilità di recettori LDL per accelerata loro degradazione. Questa forma di ipercolesterolemia dominante ha una prevalenza inferiore all’1% e presenta una estrema variabilità clinica dipendente dalla differente attività funzionale delle varie mutazioni GOF. In 129 pazienti Eterozigoti per mutazioni di PCSK9 GOF le concentrazioni plasmatiche di colesterolo LDL sono risultate le seguenti: 298.9±108.6 mg/dl (media±DS), 270 mg/dl (mediana), 216-348 mg/dl (range interquartile), 121-662 mg/dl (min-max). Alcune mutazioni PCSK9 GOF sono particolarmente gravi in quanto dotate di affinità per il recettore LDL 10 volte superiore alla affinità della proteina PCSK9 normale; tali mutazioni, prevalentemente identificate in pazienti del Nord-Europa, si associano ad elevato rischio cardiovascolare e sono particolarmente resistenti alla usuale terapia farmacologica. L’Omozigosi per mutazioni GOF PCSK9 è stata attualmente descritta in 13 pazienti Giapponesi portatori di una mutazione con modesto impatto funzionale (colesterolo LDL 305.8±112.9 mg/dl) ed in un paziente Portoghese Eterozigote Composto (colesterolo LDL 234 mg/dl).

Un evento raro ma non eccezionale è l’ipercolesterolemia dominante da Doppia Eterozigosi che si realizza quando un individuo riceve da un genitore un allele patologico di un gene dominante, di solito LDLR, e dall’altro genitore un allele patologico di un altro gene dominante, APOB o PCSK9. In questi casi si osserva una variabilità clinica con una espressione fenotipica intermedia tra l’Eterozigosi e l’Omozigosi o Eterozigosi Composta per mutazioni di LDLR sia in termini di concentrazione del colesterolo LDL che di eventi cardiovascolari. In 30 soggetti Doppi Eterozigoti per mutazioni LDLR e APOB sono state osservate le seguenti concentrazioni plasmatiche di colesterolo LDL: 351.4±100.2 mg/dl (media±DS), 327.5 mg/dl (mediana), 273-392 mg/dl (range interquartile), 240-583 mg/dl (min-max). In 35 Doppi Eterozigoti per mutazioni LDLR e PCSK9 i corrisponde valori di colesterolo LDL erano: 326.5±122.0 mg/dl (media±DS), 255 mg/dl (mediana), 223-412 mg/dl (range interquartile), 183-580 mg/dl (min-max).

L’obiettivo terapeutico, di non facile realizzazione, in ogni forma di Ipercolesterolemia Familiare Dominante è la riduzione della concentrazione plasmatica del colesterolo LDL ad un valore di 100 mg/dl e nei soggetti con pregresso evento cardiovascolare a valori inferiori a 70 mg/dl. I presidi terapeutici nel paziente Eterozigote comprendono le resine sequestranti gli acidi biliari (Colestiramina, Colestipolo – di solito scarsamente tollerate – ed il Colesevelam), gli inibitori della sintesi del colesterolo (Statine della prima generazione: lovastatina, simvastatina, pravastatina, fluvastatina; Statine della seconda generazione: atorvastatina, rosuvastatina, pitavastatina) a dosi variabili in relazione al risultato ottenuto ed alla tolleranza, in monoterpia o in associazione con Ezetimibe (inibitore dell’assorbimento del colesterolo a livello intestinale e del riassorbimento del colesterolo dal canalicolo biliare). Nei casi in cui l’obiettivo terapeutico non viene realizzato e nei pazienti con pregressi eventi cardiovascolari alla terapia convenzionale può essere associato il trattamento con LDL-aferesi ogni 15 giorni o con anticorpi monoclonali anti-PCSK9 che antagonizzano la degradazione recettoriale operata dal PCSK9 (tale trattamento è meno traumatizzante e di maggiore efficacia in molti casi). La terapia con anticorpi monoclonali anti-PCSK9 è di elezione nella terapia dei pazienti con mutazioni GOF del PCSK9; in questi soggetti infatti l’inibizione della sintesi epatica del colesterolo comporta anche un aumento di espressione della proteina PCSK9 mutata.

Nel paziente Omozigote ed Eterozigote Composto che conserva ancora una modesta attività recettoriale residua può essere ancora considerata la terapia tradizionale con statine ed ezetimibe associata con gli anticorpi monoclonali anti-PCSK9, riservando la LDL-aferesi ai casi con risultati insoddisfacenti. Nell’Omozigote ed Eterozigote Composto con totale assenza di attività recettoriale la terapia di elezione è l’inibizione della sintesi epatica di lipoproteine contenenti apolipoproteina B (VLDL, IDL, LDL) con Lomitapide (un farmaco inibitore della proteina MTP che permette l’assemblaggio dell’apoB-100 con i lipidi). In questi casi il trattamento con Lomitapide viene spesso associato con una seduta settimanale o bisettimanale con LDL aferesi. Il trapianto di fegato, non sempre coronato da successo, deve essere preso in considerazione come ultima alternativa terapeutica.

COS’È PCSK9?

Massimiliano Ruscica, Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Università degli Studi di Milano

La proproteina convertasi subtilisina/kexina di tipo 9 (PCSK9) rappresenta uno dei principali regolatori del metabolismo del colesterolo LDL. Infatti, l’attività meglio descritta e caratterizzata della proteina PCSK9 è il suo effetto post-trascrizionale sui recettori delle LDL, presenti sulla membrana cellulare. Il gene umano di PCSK9 codifica per una proteina di 692 amino-acidi (preproPCSK9, di 72 kDa), la quale è composta progressivamente da un peptide segnale (aa 1-30), da un prodomino N-terminale (aa 31-152), da un domino catalitico serin-proteasico (aa 153-404), da una regione a cerniera (aa 405-454) e da un domino C-terminale ricco di cisteina e istidina (aa 455-692). A livello del reticolo endoplasmatico, PCSK9 subisce un taglio autocatalitico ai residui Gln152 e Ser153, fondamentale per il rilascio della forma matura di PCSK9 di 62 kDa (VFAQ152:SIP) La forma matura di PCSK9 subisce un taglio catalitico a livello del sito RFHR218:QA (R218 e Q219) che permette il distacco del pro-domino NH2-terminale e la formazione della forma di troncata di PCSK9 (55 kDa).

Come detto in precedenza, l’attività meglio descritta e caratterizzata della proteina PCSK9 è il suo effetto post-trascrizionale sui recettori delle LDL, presenti sulla membrana cellulare. Il legame al recettore delle LDL avviene nella regione “A” omologa al fattore di crescita epidermico (EGF-A), determinando due effetti: il primo, in cui PCSK9 agendo da trasportatore favorisce il passaggio del recettore delle LDL dal reticolo endoplasmatico alla membrana cellulare; il secondo, in cui PCSK9 determina invece la degradazione dello stesso recettore sulla superficie cellulare.

L’interesse per tale proteina è nato nel 2003, quando in due famiglie francesi con ipercolesterolemia autosomica dominante sono state identificate due mutazioni per il gene PCSK9. In particolare le mutazioni con un guadagno di funzione della proteina (Gain of Function – GOF) sono caratterizzate da un fenotipo con alti livelli circolanti di colesterolo LDL. Tale scoperta ha determinato un crescente interesse nei confronti di PCSK9, permettendo di individuare il ruolo chiave di questa proteina nel metabolismo del colesterolo.

QUANDO UTILIZZARE I FARMACI PER RIDURRE IL COLESTEROLO?

Gli esperti delle Società Europee dell’Aterosclerosi (EAS) e di Cardiologia (ESC) affermano che il livello di colesterolo LDL  (il colesterolo “cattivo”) deve essere il più basso possibile, in particolare nei soggetti che hanno già avuto un infarto o un ictus, o sono diabetici. Hanno poi sottolineato ancora una volta quanto sia importante per ciascuno di noi conoscere il proprio rischio cardiovascolare totale. Consigliano di utilizzare il Systemic Coronary Risk Estimation (SCORE), reperibile sul sito http://www.escardio.org/static_file/Escardio/Subspecialty/EACPR/Documents/score-charts.pdf, che stima il rischio a 10 anni di avere un infarto, un ictus o altre malattie cardiovascolari. Perché è importante conoscere il proprio rischio cardiovascolare totale? Tanto più è elevato, tanto più l’intervento deve essere intensivo nell’abbassare i livelli del colesterolo LDL.

Gli esperti hanno poi definito tre strategie di intervento da applicarsi agli individui in funzione del loro rischio cardiovascolare totale e del livello di colesterolo LDL (vedi figura): verde = nessun intervento; giallo = modificazione dello stile di vita ed eventualmente terapia farmacologica; rosso = modificazione dello stile di vita e concomitante terapia farmacologica.

Calcolate il vostro rischio cardiovascolare totale (Total CV risk) con il sistema SCORE, verificate il vostro livello di colesterolo LDL (LDL-C) e identificate il colore della casella corrispondente alla vostra combinazione di questi due numeri. Quindi CONSULTATE IL VOSTRO MEDICO.

Fonte reperibile a http://www.atherosclerosis-journal.com/article/S0021-9150(16)30214-3/abstract:  2016 European Guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice: The Sixth Joint Task Force of the European Society of Cardiology and Other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice (constituted by representatives of 10 societies and by invited experts) Developed with the special contribution of the European Association for Cardiovascular Prevention & Rehabilitation (EACPR). Atherosclerosis 252:207, 2016

COME IL COLESTEROLO DANNEGGIA LE ARTERIE?

Essendo il colesterolo un costituente fisiologico del nostro organismo, il problema è costituito non dalla sua presenza ma dal suo eccesso, in particolare nelle arterie che svolgono la funzione di portare sangue ossigenato agli organi. Il colesterolo presente nel sangue tende a depositarsi all’interno delle pareti delle arterie quando supera determinate concentrazioni nel sangue.

Con il passare del tempo il deposito tende ad aumentare, sino a formare delle lesioni denominate “placche ateromasiche”. Tali lesioni evolvono e accrescendosi possono determinare l’ostruzione completa del vaso; più frequentemente possono andare incontro a rottura, dovuta alle caratteristiche cristalline del colesterolo, che determina la formazione di un trombo sulla placca rotta. Il trombo è composto da un aggregato di piastrine cementato da un coagulo di fibrina; serve normalmente a riparare una ferita, evitando perdite di sangue, ma se occupa l’intero lume di un’arteria ne causa la chiusura improvvisa. Il risultato finale è il ridotto rifornimento di ossigeno ai tessuti a causa del vaso ostruito, con conseguente insorgenza di dolore e danno al tessuto. Il persistere o l’aggravarsi dell’ostruzione può portare alla morte del tessuto (necrosi) in una zona più o meno estesa dell’organo irrorato dall’arteria in cui è avvenuta la rottura della placca e la formazione del trombo. Quando tale processo avviene a livello delle coronarie, una porzione della parete del cuore non riceve più sufficiente ossigeno e l’individuo va incontro a un infarto miocardico, più o meno grave a seconda dell’estensione della necrosi. Se avviene nel cervello, l’individuo va incontro a un attacco ischemico transitorio (TIA) o a un ictus.