IL PEPERONCINO FA BENE ALLA SALUTE

Queste sono le conclusioni di uno studio italiano condotto all’IRCCS Neuromed di Pozzilli. Il peperoncino è una parte abituale della dieta mediterranea. Tuttavia, i dati epidemiologici sull’associazione tra assunzione di peperoncino e mortalità sono scarsi. I ricercatori molisani hanno esaminato 22.811 uomini e donne arruolati nel Moli-sani Study (2005-2010). L’assunzione di peperoncino è stata stimata dal questionario sulla frequenza alimentare EPIC (European Prospective Investigation Into Cancer) e classificata come nessuna/rara, <2 volte a settimana, da >2 a ≤4 volte a settimana e >4 volte a settimana. Nel corso di un follow-up medio di 8.2 anni sono stati accertati 1.236 decessi.
Negli individui che assumevano regolarmente peperoncino (> 4 volte/settimana) la mortalità per tutte le cause e per malattie cardiovascolari è ridotta del 23% (HR 0.77; 95%CI 0.66-0.90) e del 34% (HR 0.66; 95%CI 0.50-0.86), rispetto a coloro che non lo consumavano mai o occasionalmente. L’assunzione regolare di peperoncino riduce anche la mortalità cerebrovascolare (HR 0.39; 95%CI 0.20-0.75) e la cardiopatia ischemica (HR 0.56; 95%CI 0.35-0.87). La riduzione della mortalità totale è più evidente nei soggetti normotesi.

J Am Coll Cardiol (IF=18.639) 74:3139,2019.

DIABETE TIPO 2: ATTENZIONE AI CIBI ULTRA-ELABORATI

I cibi altamente elaborati (“ultraprocessed foods”) sono spesso ricchi di zuccheri, grassi e calorie. Il consumo di questi cibi è stato collegato a un aumento del rischio di sviluppare un’ampia varietà di problemi di salute tra cui malattie cardiovascolari, ipertensione, iperlipidemia, obesità e alcuni tipi di cancro. Uno studio condotto dall’Università di Parigi offre ulteriori prove che collegano il consumo di questi alimenti allo sviluppo di diabete mellito di tipo 2 (DM2).
I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 104.707 adulti non diabetici, 21.800 [20.8%] uomini e 82.907 [79.2%] donne. I partecipanti avevano in media 43 anni all’inizio dello studio e la maggior parte è stata seguita per almeno sei anni. Complessivamente, circa il 17% dell’alimentazione dei partecipanti consisteva in alimenti ultra-elaborati. Il consumo di tali alimenti era maggiore nei soggetti giovani, obesi, fumatori e che svolgevano scarsa attività fisica; inoltre, i soggetti che consumavano maggiori quantità di questi cibi tendevano a introdurre un maggior numero di calorie, con un’alimentazione di scarsa qualità. Durante il periodo di studio, a 821 individui è stato diagnosticato un DM2. I partecipanti sono stati suddivisi in quartili in base al consumo di cibi ultra-elaborati. All’aumentare del consumo ha corrisposto un progressivo aumento nell’incidenza di DM2: 113, 125, 143 e 166 casi per 100.000 anni-persona dal primo (minor consumo) al quarto (maggior consumo) quartile. Ogni aumento di 10 punti percentuali nella quantità di alimenti ultra-elaborati consumata è stato associato a un rischio aumentato del 15% di sviluppare diabete. La connessione tra alimenti ultra-elaborati e diabete permane anche dopo correzione per una serie di marcatori della qualità nutrizionale, per presenza di disturbi metabolici e per eventuali aumenti di peso.
Un’ulteriore prova che limitare il consumo di alimenti ultra-elaborati e privilegiare alimenti non trasformati o minimamente trasformati, oltre a mantenere un’alimentazione nutrizionalmente sana, a basso contenuto di sale, zucchero e grassi, fa bene alla salute.

JAMA Intern Med (IF=20.768) 16 Dec 2019. doi: 10.1001/jamainternmed.2019.5942

VEGETARIANI: BENE IL CUORE, MA ATTENZIONE AL CERVELLO

Un ampio studio condotto dall’Università di Oxford indica che le persone che seguono diete vegetariane o vegane hanno minori probabilità di sviluppare cardiopatie, ma presentano maggiori possibilità di avere un ictus rispetto a chi mangia carne.
I ricercatori hanno seguito 48.188 adulti di mezza età non affetti da malattie cardiovascolari per circa 18 anni. I ricercatori hanno valutato le abitudini alimentari con questionari all’inizio dello studio; alcuni partecipanti hanno completato altri questionari circa 14 anni dopo. Le persone che mangiavano carne, a prescindere che consumassero anche pesce, latticini o uova, sono state classificate come carnivore; all’inizio dello studio erano 24.428 e il 96% è rimasto carnivoro nel follow-up. Altre 7.506 persone mangiavano pesce ma non carne all’inizio dello studio e il 57% ha mantenuto le sue abitudini. 16.254 soggetti hanno iniziato come vegetariani o vegani, non mangiando carne o pesce, e il 73% hanno continuato ad astenersi durante il follow-up.

Durante i 18 anni di follow-up, 2.820 individui hanno sviluppato una coronaropatia, 519 hanno avuto ictus ischemici e 300 ictus emorragici. I vegetariani, inclusi i vegani, avevano il 22% in meno di probabilità di sviluppare coronaropatia rispetto ai carnivori; 10 casi in meno su 1.000 persone in un decennio. Tuttavia, vegetariani e vegani avevano il 20% in più di probabilità di avere un ictus, soprattutto emorragico; in 10 anni ciò si traduce in circa tre ictus in più ogni 1.000 persone.
Sia chi mangiava pesce che i vegetariani avevano in media un BMI più basso e tassi inferiori di ipertensione, ipercolesterolemia e diabete rispetto a chi mangiava carne, il che potrebbe spiegare il rischio inferiore di cardiopatie nei vegetariani. Il motivo dell’aumentato rischio di ictus nei vegetariani è meno chiaro, ma alcune recenti evidenze suggeriscono che mentre bassi livelli di colesterolo sono protettivi contro cardiopatia e ictus ischemico, livelli di colesterolo molto bassi potrebbero essere legati a un maggior rischio di ictus emorragico, il sottotipo riscontrato di maggiormente nei vegetariani.

BMJ (IF=27.604) 366:l489,2019

DOMANDE E RISPOSTE SULLA VITAMINA D

1. Cos’è la vitamina D?
La vitamina D è un pro-ormone liposolubile prodotto a livello della cute per azione dei raggi ultravioletti B (UVB). L’esposizione solare rappresenta la principale sorgente naturale di vitamina D, tuttavia, essa può essere assunta anche con gli alimenti.

2. Che ruolo svolge nel corpo umano?
Il principale ruolo della vitamina D è quello di regolare l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, favorendo la normale formazione e mineralizzazione dell’osso. Inoltre, la vitamina D è coinvolta nel processo che garantisce una normale contrattilità muscolare nonché interagisce con il sistema immunitario esercitando un effetto immunomodulante.

3. Cosa comporta una carenza di vitamina D?
In molte persone la carenza di vitamina D è del tutto asintomatica. Una grave carenza determina il rachitismo nei bambini e l’osteomalacia negli adulti. Inoltre, condizioni di ipovitaminosi D possono portare anche a riduzione della forza muscolare e dolori diffusi.

4. Come si può valutare la disponibilità di vitamina D nel corpo umano?
Il dosaggio della vitamina D nella forma 25(OH)D sierica rappresenta il metodo più accurato per stimare lo stato di riserva di vitamina D nell’organismo.

5. Quando è necessario eseguire il dosaggio di vitamina D?
Il dosaggio deve essere eseguito solo in presenza di specifiche condizioni di rischio, su indicazione del medico. Il dosaggio della vitamina D [dosaggio della 25(OH)D] esteso alla popolazione generale è inappropriato.

6. Quali sono i valori “normali” di vitamina D?
I valori desiderabili di 25(OH)D sono compresi tra 20 e 40 ng/mL. Infatti, per valori superiori ai 20 ng/mL si considera garantita l’efficacia per gli esiti scheletrici, mentre per valori inferiori ai 40 ng/mL si considera garantita la sicurezza, non essendo documentati rischi aggiuntivi.
Una condizione di “carenza” di vitamina D è individuata per valori di 25(OH)D inferiori a 20 ng/mL. Pertanto, per valori di 25(OH)D < 20 ng/mL è giustificato l’inizio della supplementazione di vitamina D. Il controllo sistematico dei livelli di 25(OH)D non è raccomandato.

7. Quali sono le fonti naturali di vitamina D?
L’efficace esposizione alla luce solare e l’apporto dietetico di vitamina D rappresentano i principali fattori che determinano i livelli sierici di 25(OH)D.
ESPOSIZIONE SOLARE
L’esposizione solare rappresenta il meccanismo principale di produzione di vitamina D nell’essere umano. Un’esposizione solare regolare rappresenta il modo più naturale ed efficace per un’adeguata produzione endogena di vitamina D. Fattori che possono influenzare la capacità di produrre vitamina D a seguito dell’esposizione alla luce solare (raggi UVB) includono l’ora del giorno, la stagione, il colore della pelle, la quantità di pelle esposta alla luce solare, il tempo di esposizione, nonché l’utilizzo di protezione solare. In generale le persone con pelle più scura potrebbero aver bisogno di un tempo di esposizione più prolungato rispetto a persone con carnagione chiara. Il tempo di esposizione dipende dalla sensibilità della pelle alla luce solare, assicurandosi di evitare scottature.
APPORTO ALIMENTARE
La maggior parte degli alimenti contiene scarse quantità di vitamina D, pertanto la sola alimentazione non può esserne considerata una fonte adeguata. La vitamina D è relativamente stabile e viene alterata poco da conservazione e cottura. Ecco una lista di alimenti con corrispondente contenuto di vitamina D espresso o in UI/100g o in UI/L.
Latte e latticini. Latte vaccino: 5-40 UI/L. Latte di capra 5-40 UI/L. Burro 30 UI/100g. Yogurt 2.4 UI/100g. Panna 30 UI/100g. Formaggi 12-40/100g.
Altri alimenti. Maiale 40-50 UI/100g. Fegato di manzo 40-70 UI/100g. Dentice, merluzzo, orata, palombo, sogliola, trota, salmone, aringhe 300-1500/100g. Olio di fegato di merluzzo 400 UI/5ml (1 cucchiaino da the). Tuorlo d’uovo 20 UI/100g.

8. In quali casi è previsto l’utilizzo di vitamina D per prevenirne o trattarne la carenza?
L’utilizzo di vitamina D, indipendentemente dalla misurazione della 25(OH)D, è previsto:
• negli anziani ospiti delle residenze sanitario-assistenziali
• nelle donne in gravidanza o in allattamento
• nelle persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate per cui non è indicata una terapia remineralizzante.
L’utilizzo previa misurazione della 25(OH)D è previsto:
• nelle persone con livelli sierici di 25(OH)D < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
• nelle persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D
• nelle persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate per le quali la correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia remineralizzante.
• in caso di una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D (antiepilettici, glucocorticoidi, antiretrovirali, antimicotici, ecc.).
• in caso di malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto (fibrosi cistica, celiachia, morbo di Crohn, chirurgia bariatrica ecc.).

9. Perché è importante attenersi alla corretta posologia? Quali effetti sfavorevoli sulla salute può provocare un eccesso di vitamina D? Perché è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D? La vitamina D è liposolubile e pertanto tende ad accumularsi nell’organismo umano. L’assunzione per lunghi periodi ad alte dosi, può provocare effetti gravi per la salute, ad esempio ipercalcemia e nefrolitiasi (calcolosi renale), nonché aumentare il rischio di fratture nei mesi successivi alla somministrazione di boli di vitamina D e il rischio di alcune neoplasie nelle popolazioni con livelli di 25(OH)D > 40-50 ng/mL. Per tali motivi è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D e attenersi alla corretta posologia prescritta. Inoltre, è necessario ricordare che il sovradosaggio di vitamina D durante i primi 6 mesi di gravidanza può avere effetti tossici nel feto e pertanto anche in questo caso l’assunzione di tali medicinali non può prescindere dalla prescrizione medica.

10. In quali casi l’assunzione di vitamina D si è rivelata inefficace? Le evidenze scientifiche disponibili indicano come la somministrazione di vitamina D per la prevenzione cardiovascolare e cerebrovascolare e per la prevenzione dei tumori sia inefficace e, pertanto, inappropriata.

11. I medicinali a base di vitamina D possono essere acquistati senza prescrizione del medico? No, tali medicinali necessitano di prescrizione medica in quanto il medico curante deve essere a conoscenza dell’assunzione di tali farmaci in considerazione dei possibili eventi avversi.

Fonte: AIFA (Agenzia Italiana dal Farmaco)

PERCHÉ LIMITARE IL CONSUMO DI BEVANDE ZUCCHERATE (SOFT DRINKS)?

Le bevande analcoliche, addolcite con zucchero o dolcificanti artificiali, aumentano la mortalità. È quanto emerge da un’analisi dei dati di uno studio multinazionale, l’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC), che ha seguito più di 400.000 adulti europei di 10 diversi Paesi per oltre 16 anni. I ricercatori hanno analizzato le abitudini alimentari di ciascun individuo, incluso il consumo di bevande analcoliche, all’inizio del periodo di osservazione. Dopo l’esclusione degli individui con patologie pregresse come tumori, cardiopatie e diabete, i ricercatori hanno valutato 451.743 soggetti (71.1% donne), età media al reclutamento di 50.8 anni. Durante il follow-up di 16.4 anni, 41.693 partecipanti sono deceduti.
La mortalità per tutte le cause è più elevata del 17% nei soggetti che bevono più di 2 bicchieri al giorno di bevande zuccherate, rispetto a coloro che bevono meno di un bicchiere al mese. In particolare aumenta del 52% la mortalità per malattie cardiovascolari e del 59% la mortalità per malattie digestive.
Questi risultati forniscono un ulteriore supporto alla limitazione del consumo di bevande zuccherate e alla loro sostituzione con altre bevande più salutari.

JAMA Intern Med (IF=20.768) 3 Sep 2019. doi: 10.1001/jamainternmed.2019.2478

ALIMENTAZIONE POVERA E FRAGILITÀ NEGLI ANZIANI

Sul rapporto tra alimentazione e fragilità nella popolazione anziana ha indagato uno studio prospettico olandese. I ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam hanno seguito 2.154 anziani statunitensi per quattro anni. Al reclutamento, i partecipanti avevano un’età compresa tra i 70 e gli 81 anni. La qualità dell’alimentazione seguita nell’anno precedente il reclutamento è stata analizzata mediante questionari e valutata utilizzando tre indicatori: qualità generale, utilizzando lo score “Healthy Eating Index” (HEI), che misura l’adeguatezza alle linee guida americane per una sana alimentazione, apporto calorico totale giornaliero e consumo giornaliero di proteine. Per quanto riguarda la fragilità, i partecipanti sono stati classificati sani se non avevano problemi cognitivi o di fragilità fisica, “pre-fragili” se avevano uno o due sintomi di fragilità; la condizione di “fragilità” era definita dalla presenza di 3-5 sintomi di fragilità (secondo il Fried’s test, che include: perdita di peso involontaria di oltre il 5% negli ultimi 12 mesi; debolezza della presa della mano o troppo dolore alle articolazioni per completare questa valutazione; fatica quotidiana; bassa velocità di camminata e inattività fisica).
Durante i 4 anni di follow-up 277 dei 2154 partecipanti (sani o pre-fragili al reclutamento) sono diventati fragili; dei 1.020 individui che erano sani al reclutamento, 629 sono diventati fragili o pre-fragili.

Gli anziani che seguivano un’alimentazione di scarsa qualità (secondo l’HEI) hanno fatto registrare quasi il doppio (+92%) della probabilità di diventare fragili rispetto a quelli con alimentazione di alta qualità; un’alimentazione di media qualità è stata associata a un rischio di fragilità del 40% più elevato (Figura). Non è stata osservata alcuna differenza significativa nel rischio di fragilità in funzione all’assunzione di proteine o all’apporto calorico totale.
Lo studio non ha indagato i potenziali meccanismi dell’associazione tra alimentazione e fragilità nell’anziano, ma si può ipotizzare che un’alimentazione equilibrata, specie se associata a un’adeguata attività fisica, sia in grado di rallentare la perdita di massa muscolare e di forza che si verifica con l’invecchiamento.

J Am Geriatr Soc (IF=4.113) 67:1835,2019

BEVANDE ZUCCHERATE E CANCRO

Il consumo di bevande zuccherate è cresciuto in tutto il mondo negli ultimi decenni ed è legato all’obesità, che di per sé aumenta il rischio di cancro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di limitare il consumo quotidiano di zucchero a meno del 10% dell’apporto energetico totale, ma, allo stesso tempo, afferma anche che un’ulteriore riduzione a meno del 5%, circa 25 grammi al giorno, sarebbe più salutare. Lo studio francese che vi proponiamo oggi accende i riflettori su consumo di bevande zuccherate e sviluppo di neoplasie. I ricercatori hanno analizzato i dati relativi a 101.257 adulti francesi, 21% uomini e 79% donne, valutandone il consumo di bevande zuccherate. I partecipanti sono stati seguiti per un massimo di 9 anni, tra il 2009 e il 2018, per stimare rischio di sviluppare tutti i tipi di tumore e di alcuni forme specifiche come il tumore della mammella, del colon e della prostata. I ricercatori hanno anche considerato i fattori di rischio confondenti per neoplasia, tra cui età, sesso, livello di istruzione, anamnesi familiare, fumo e livelli di attività fisica.
I risultati hanno mostrato che un aumento di 100 ml al giorno nel consumo di bevande zuccherate è associato a un rischio aumentato del 18% di cancro in generale e del 22% di tumore della mammella. Quando i soggetti sono stati divisi tra consumatori di succhi di frutta e consumatori di altre bevande dolci, entrambi i gruppi hanno presentato un rischio superiore di cancro. Per il tumore della prostata e per quello al colon-retto non è stato riscontrato alcun legame, ma i ricercatori hanno affermato che ciò potrebbe essere avvenuto perché il numero di casi di questi tumori tra i partecipanti allo studio era limitato.

Brit Med Joiurnal (BMJ) (IF=27.604) 2019;366:l2408

IL CONSUMO DI CARNI ROSSE, PEGGIO SE PROCESSATE, ACCORCIA LA VITA

È noto che il consumo di carni rosse si associa a un aumentato rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari, di alcune forme di tumore (come il cancro del colon retto) e a una ridotta aspettativa di vita. Il rischio aumenta ulteriormente se si consumano carni rosse processate (es. salumi, hot dog, salsicce). Alcuni studi hanno associato il consumo di carni processate anche a un aumentato rischio di broncopatia cronica ostruttiva (BPCO), scompenso cardiaco, ipertensione e malattie neurodegenerative. Associazioni evidenziate da studi osservazionali, con tutti i limiti di questa tipologia di studi, ma che hanno tuttavia una plausibilità biologica, visto che le carni rosse e processate sono ricche di grassi pro-aterosclerotici (i grassi saturi), cancerogeni potenziali (es. idrocarburi aromatici policiclici e ammine eterocicliche), sodio e conservanti.
Per confermare l’esistenza di un’associazione tra variazioni nel consumo di carni rosse e mortalità nei due sessi, un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Nutrizione della Harvard School of Public Health (Boston, Usa) ha esaminato i dati relativi a due grandi studi prospettici: la coorte di 53.553 donne del Nurses’ Health Study e quella di 27.916 uomini dell’Health Professionals Follow-up Study. Endpoint principale dello studio era la mortalità.
Durante il follow-up di 1,2 milioni di anni-persona, sono stati registrati 14.019 decessi; 8.426 nel Nurses’ Health Study, 5.593 nell’Health Professionals Follow-up Study. Un aumento nel consumo di carni rosse rilevato nel corso di 8 anni è risultato associato a un più elevato rischio di mortalità nei successivi 8 anni, tanto negli uomini che nelle donne.
Un aumentato consumo di almeno mezza porzione di carni rosse al giorno è risultato associato ad un rischio di mortalità maggiorato del 10% (per le carni processate +13%, per le carni rosse non processate +9%). Una riduzione del consumo di carni rosse, processate e non, pari ad almeno mezza porzione al giorno, non ha prodotto per contro una riduzione del rischio di mortalità. Ma una riduzione del consumo di carni rosse, compensata da un contemporaneo aumento di frutta a guscio, pesce, pollo, latticini, uova, cereali integrali o vegetali, era associata a una riduzione del rischio di morte.
“Questi risultati – commentano gli autori dello studio – suggeriscono dunque che un cambiamento delle fonti di proteine alimentari e un aumentato consumo di cibi di origine vegetale può aumentare la longevità”.

Brit Med J (IF=27.604) 365:l2110,2019

TROPPI ENERGY DRINK FANNO IMPAZZIRE IL CUORE

Gli energy drink sono bevande energetiche che contengono una miscela di sostanze stimolanti, zuccheri e altri ingredienti come la taurina e alcune vitamine del gruppo B. Se consumati in eccesso e in un breve periodo di tempo, gli energy drink possono causare rischi per la salute, in particolare per quella del cuore. Lo studio che vi proponiamo oggi dimostra che bere circa 1 litro di bevande energetiche nell’arco di un’ora aumenta la pressione sanguigna e altera la frequenza cardiaca.
I ricercatori hanno suddiviso 34 volontari sani, tra 18 e 40 anni di età, in due gruppi. Al primo è stato chiesto, per tre giorni differenti, di bere in un’ora circa un litro di due diverse bevande energetiche (drink A e drink B), entrambe contenenti un totale compreso tra i 304 e i 320 milligrammi di caffeina (ovvero sotto al limite di 400 mg al giorno) e altri ingredienti come la taurina (un amminoacido), il glucuronolattone (uno zucchero) e alcune vitamine del gruppo B. Al secondo gruppo è stato chiesto di consumare una bevanda placebo, composta da acqua gassata, succo di lime e aromi alla ciliegia. I ricercatori hanno poi monitorato l’attività elettrica del cuore e la pressione sanguigna di ciascun partecipante prima e ogni 30 minuti per le 4 ore successive al consumo delle bevande.
I volontari che hanno assunto le bevande energetiche presentavano un battito cardiaco alterato. Dopo 4 ore dall’assunzione delle bevande energetiche, l’intervallo QT all’ECG, ovvero il tempo impiegato dai ventricoli per prepararsi a generare un nuovo battito, era tra i 6 e 7.7 millisecondi più lungo rispetto a quello di coloro che avevano bevuto la bevanda placebo. Un intervallo QT troppo lungo può causare un’alterazione del battito cardiaco, o un’aritmia cardiaca, con potenziali gravi complicanze. La pressione sistolica aumentava di 14.4-15.9 mmHg dopo assunzione delle bevande energetiche, e di 9.8 mmHg dopo placebo (Figura), e superava i 140 mmHg in 8 volontari che avevano consumato bevande energetiche e solo in 2 che avevano assunto placebo.

Responsabile di queste alterazioni non può essere solo la caffeina, in quanto i livelli di questa sostanza assunti dai partecipanti erano inferiori ai limiti raccomandati dall’EFSA, l’Autorithy Europea per la sicurezza alimentare. Sarà quindi necessario analizzare gli effetti dei singoli ingredienti e le loro diverse combinazioni per poter spiegare le alterazioni riscontrate.

J Amer Heart Ass (IF=4.660) 8:e011318, 2019

LA DIETA MEDITERRANEA RIDUCE IL RISCHIO DI MORTALITÀ PER MALATTIE CARDIOVASCOLARI LEGATO ALL’ESPOSIZIONE AGLI INQUINANTI ATMOSFERICI

Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della New York University School of Medicine di New York, che hanno valutato se la dieta mediterranea modifica l’associazione tra esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e rischio di mortalità per malattie cardiovascolari. Il National Institutes of Health – American Association for Retired Persons Diet and Health Study ha arruolato una coorte prospettica (N = 548.845) in 6 stati e 2 città negli Stati Uniti, con un periodo di follow-up di 17 anni (1995-2011). È stato utilizzato un Diet Index Mediterraneo (DIM), che valuta con una scala a 9 punti la conformità con una dieta in stile mediterraneo, ed è stata effettuata una stima delle esposizioni medie annuali al particolato fine e al biossido di azoto. È stato quindi valutato il rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, cardiopatia ischemica, malattie cerebrovascolari o arresto cardiaco associati all’esposizione a lungo termine a inquinamento atmosferico. È stata infine esaminata la capacità del DIM di modificare le associazioni tra esposizione agli inquinanti e mortalità. Per il particolato fine, è stata osservata una associazione elevata e significativa con malattia cardiovascolare (HR per 10 μg/m3 =1.13, IC 95% 1.08-1.18), cardiopatia ischemica (HR=1.16, IC 95% 1.10-1.23) e malattia cerebrovascolare (HR=1.15, IC 95% 1.03-1.28). Per il biossido di azoto, è stata riscontrata un’associazione significativa con malattie cardiovascolari (HR per 10 ppb=1.06, IC 95% 1.04-1.08) e cardiopatia ischemica (HR=1.08, IC 95% 1.05-1.11). La dieta mediterranea ha modificato queste relazioni: I soggetti con DIM più elevato avevano tassi di mortalità per malattie cardiovascolari associati all’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico significativamente più bassi (interazione P <0.05).

Circulation (IF=18.881) 139:1766,2019