RIDUZIONE DEL SALE ALIMENTARE E PRESSIONE ARTERIOSA

Uno studio americano ben condotto fa un po’ di chiarezza sulla relazione tra sale alimentare e pressione arteriosa. Nello studio gli Autori hanno esaminato gli effetti della riduzione del sodio alimentare associata o meno a una dieta DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension), una dieta a basso contenuto di grassi saturi e colesterolo, e ricca di frutta, vegetali e prodotti caseari poveri in grassi, sulla pressione arteriosa sistolica (SBP) e diastolica (DBP) in 412 individui (57% donne, età media 48 anni) che non assumevano farmaci anti-ipertensivi, suddivisi in 4 gruppi, in funzione della SBP basale: <130 mmHg; 130-139 mmHg; 140-149 mmHg e ≥150 mmHg. I partecipanti hanno consumato una dieta DASH o una tipica dieta americana, ciascuna contenente tre diverse quantità di sodio (basso: 1150 mg/die; medio: 2300 mg/die; elevato: 3450 mg/die) per periodi di 4 settimane.

Sia la riduzione del sale alimentare, che la dieta DASH, hanno prodotto riduzioni della SBP e della DBP, che diventano più importanti con l’aumentare della SBP basale. L’effetto ipotensivo della riduzione del sale e della dieta DASH è additivo, fino a raggiungere l’impressionante riduzione di 20.8 mmHg di SBP nei soggetti con SBP basale ≥150 mmHg che consumano una dieta DASH a basso contenuto di sodio rispetto a coloro che consumano una dieta “americana” a elevato contenuto di sodio (Figura).

I risultati dimostrano che un’alimentazione equilibrata a basso contenuto di sodio produce un’importante riduzione della pressione arteriosa in soggetti con vari gradi di ipertensione e rafforzano il concetto che la modifica delle abitudini alimentari ha un ruolo importante anche nel controllo della pressione arteriosa.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:2841,2017

MANDORLE E CIOCCOLATO FONDENTE RIDUCONO IL COLESTEROLO-LDL MODIFICANO LE PARTICELLE LDL

Mandorle e cioccolato fondente riducono il colesterolo-LDL (LDL-C) e con questo il rischio di cardiopatia ischemica. Lo stabilisce uno studio pubblicato da ricercatori statunitensi su Journal of the American Heart Association. La ricerca ha coinvolto 31 soggetti di età compresa tra i 30 e i 70 anni, sovrappeso o obesi. I partecipanti hanno consumato, per periodi di 4 settimane ciascuno, intervallati da 2 settimane di interruzione, 4 diete isocaloriche diverse: 1) dieta americana media (DA) senza aggiunte; 2) DA più 42,5 gr. di mandorle al giorno (DM); 3) DA più 43 gr. di cioccolato fondente e 18 gr. di cacao in polvere (DC); 4) DA più mandorle e cioccolato/cacao nelle quantità indicate sopra (DM+DC). Le mandorle, contenenti grassi insaturi, venivano inserite nella dieta dei partecipanti in sostituzione dei grassi saturi dei latticini (burro e formaggi).

Rispetto alla dieta base (DA), l’aggiunta di sole mandorle (DM) ha ridotto il livello di LDL-C del 7%. L’aggiunta di solo cioccolato/cacao non ha prodotto alcun effetto sul livello di LDL-C. La combinazione di cioccolato/cacao e mandorle ha ridotto l’LDL-C e l’apoB del 5%. I ricercatori hanno poi analizzato gli effetti delle varie diete sulle sottoclassi delle LDL; ricordo al proposito che maggiore è il numero di particelle LDL di piccole dimensioni, maggiore è il rischio cardiovascolare. La dieta alle mandorle (DM) ha ridotto il numero delle particelle LDL grandi, mentre la combinazione di cioccolato/cacao e mandorle ha ridotto il numero di particelle LDL piccole.

Il messaggio che si può dedurre da questo studio è che le mandorle dovrebbero rappresentare un ingrediente base di una dieta salutare. Ma anche cioccolato fondente e cacao non zuccherato potrebbero avere effetti positivi sulla salute cardiovascolare. Incorporare tutti questi alimenti in una dieta salutare, stando attenti a non eccedere in calorie (basta sostituire altri alimenti con questi) potrebbe contribuire a ridurre il rischio di cardiopatia ischemica.

J Am Heart Assoc. (IF=4.425) 6:e005162.

ANCORA SUL CAFFÈ…..

Abbiamo visto l’altro giorno come bere caffè riduca la mortalità; almeno è quello che emerge dall’analisi dello studio EPIC in 10 Paesi Europei. Oggi vi propongo questa “umbrella analysis” dei risultati di quasi 220 meta-analisi che hanno messo in relazione consumo di caffè ed eventi clinici di vario tipo. Una mole di dati impressionante!

Il primo risultato è una conferma: bere 3-4 tazze di caffè (espresso o caffè americano sembrano produrre lo stesso effetto) riduce la mortalità totale (-17%) e la mortalità cardiovascolare (-19%). Bere caffè diminuisce anche il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari, metaboliche (diabete e gotta), epatiche e neurologiche, e di sviluppare un cancro, in particolare a prostata, endometrio, pelle e fegato.

In ogni caso, bere caffè dà più benefici che problemi di salute. Non va bene però bere caffè in gravidanza, quando aumenta il rischio di aborto spontaneo e riduce il peso corporeo del nascituro. Nelle donne, ma non nei maschi, il consumo di caffè aumenta il rischio di fratture.

BMJ (IF=20.785) 359:j5024,2017

IL CAFFÈ ALLUNGA LA VITA?

Si direbbe di sì. Almeno questa è la conclusione cui sono giunti i ricercatori di 10 Paesi europei coordinati da M.J. Gunter dell’International Agency for Research on Cancer di Lione. Non essendo chiara la relazione tra consumo di caffè e mortalità in varie popolazioni europee, che utilizzano metodi diversi per la preparazione del caffè, i ricercatori hanno esaminato se il consumo di caffè fosse associato alla mortalità per tutte le cause e per cause specifiche. Per far ciò, hanno analizzato i dati dello studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), uno studio di coorte prospettico in 10 Paesi europei, che ha coinvolto 521.330 individui. Durante il follow-up medio di 16.4 anni, si sono verificati 41.693 decessi. Non sorprende che il consumo di caffè (valutato in ml/giorno) fosse decisamente inferiore in Italia (90 ml/giorno)(l’espresso!) che non, p. es. in Danimarca (dieci volte tanto! 900 ml/giorno). Dopo aggiustamento per una serie di fattori confondenti, si è osservato che, rispetto ai non consumatori, i partecipanti di tutti i 10 Paesi che si collocavano nel quartile più elevato di consumo di caffè (media 855 e 684 ml/giorno per maschi e femmine) avevano tassi di mortalità per tutte le cause significativamente più bassi del 12% nei maschi e del 7% nelle femmine. Non sono state riscontrate differenze tra partecipanti di diversi Paesi, a suggerire che il metodo di preparazione del caffè non influenza l’effetto sulla riduzione della mortalità, che peraltro non cambia anche quando si separano gli individui che consumano caffè decaffeinato o con caffeina.
Il maggior consumo di caffè era associato a una riduzione della mortalità per malattie dell’apparato digerente, epatiche, cardio- e cerebro-vascolari. Complessa la relazione tra consumo di caffè e cancro. L’associazione con la mortalità per cancro (qualsiasi tipo) non era significativa nei maschi, ma era positiva nelle femmine (maggior consumo di caffè = aumento della mortalità), nelle quali il consumo di caffè era associato a un aumento della mortalità per cancro all’ovaio.
Un elevato consumo di caffè si accompagnava a riduzioni in una serie di biomarcatori del metabolismo epatico, lipidico, glucidico e dell’infiammazione, a suggerire la coesistenza di molteplici meccanismi sottesi all’effetto protettivo di questa bevanda.

Ann Intern Med (IF=17.202) 167:236-381,2017

UN’INSALATA AL GIORNO MANTIENE IL CERVELLO PIÙ GIOVANE

Mangiare un’insalata al giorno mantiene il cervello più giovane di una decina d’anni e protegge dalla demenza. Lo dimostrano i risultati di uno studio prospettico pubblicati su Neurology dai ricercatori del Rush University Medical Center di Chicago. La ricerca ha interessato 960 individui di età compresa tra i 58 e i 99 anni, arruolati nel Memory and Aging Project, uno studio avviato alla fine degli anni ’70 presso il Knight Alzheimer’s Disease Research Center della Washington University. Ai partecipanti veniva richiesto di compilare un questionario sulle abitudini alimentari per un periodo di cinque anni; ogni anno venivano sottoposti a una valutazione neuropsicologica. I risultati evidenziano che le persone che consumano regolarmente vegetali a foglia hanno un’età cerebrale di circa 11 anni più giovane rispetto ai non consumatori. Facile pensare all’esistenza di un bias di ‘salutismo’, ovvero che questo risultato potrebbe essere il frutto non solo del consumo elevato di insalate, ma anche di altri comportamenti salutari ad esso associati. Gli autori dello studio dimostrano tuttavia che i vantaggi dell’insalata si mantengono anche dopo aver considerato possibili fattori confondenti quali livello di istruzione, attività fisica, consumo di alcol, fumo di sigaretta, obesità e depressione. Il merito di questa azione anti-aging cognitiva secondo gli autori potrebbe essere dovuto ad alcune sostanze contenute in questi alimenti e in particolare a fillochinone (vitamina K), luteina, folati, alfa-tocoferolo (vitamina E) e kampferolo. In attesa che futuri studi identifichino i componenti bioattivi e i meccanismi responsabili dell’effetto anti-invecchiamento, gli autori consigliano di inserire nel menu giornaliero una bella insalata, corredandola anche di altri alimenti con proprietà anti-ossidanti.

Neurology (IF=8.320) 90:e214,2018

LA FRUTTA SECCA FA BENE AL CUORE

La frutta secca è un alimento nutriente e salutare, grazie all’elevato contenuto di acidi grassi insaturi (particolarmente acido linolenico), fibra, vitamine, minerali, polifenoli e altri componenti bioattivi. In particolare, le arterie traggono beneficio da un consumo regolare di frutta secca. Lo dimostra con estrema chiarezza questa analisi condotta da ricercatori di Harvard, che hanno esaminato i dati di tre grandi studi prospettici, il Nurses’ Health Study (1980 to 2012), il Nurses’ Health Study II (1991 to 2013) e l’Health Professionals Follow-Up Study (1986 to 2012), per un totale di 169.310 donne e 41.256 uomini non affetti da malattie tumorali o cardiovascolari, seguiti per un periodo variabile tra 21.5 e 28.7 anni. Ogni 2-4 anni veniva somministrato un questionario sulle abitudini alimentari, che includeva 130 alimenti, tra cui frutta secca con guscio (tutta), arachidi e burro di arachidi, e noci.

Durante il periodo di osservazione sono stati registrati più di 14.000 eventi cardiovascolari, di cui 8.390 cardiaci e 5.910 cerebrali. I soggetti che consumavano una porzione di frutta secca (28 g) almeno 5 volte a settimana presentavano un rischio di eventi cardiaci ridotto del 20% rispetto a coloro che non consumavano mai, o consumavano saltuariamente, frutta secca. Per ogni porzione di frutta secca il rischio di eventi cardiaci diminuiva del 13%. Basta mangiare frutta secca 2 volte a settimana per ridurre significativamente il rischio cardiaco. Il consumo di frutta secca non influenzava il rischio di eventi cerebrali.

Ma la frutta secca è tutta ugualmente efficace nel proteggere il cuore? La risposta dei ricercatori di Harvard a questa domanda è affermativa: le tipologie di frutta secca analizzate riducono in modo sostanzialmente analogo (15-23% per 5 porzioni/settimana) il rischio cardiaco, con l’eccezione del burro d’arachidi, che non ha alcun effetto sugli eventi cardiovascolari.

Come ricordato, la frutta secca è ricca di componenti bioattivi in grado di influenzare favorevolmente processi coinvolti nello sviluppo di eventi cardiovascolari, come il metabolismo lipidico, la sensibilità all’insulina, la funzionalità endoteliale, l’infiammazione, lo stress ossidativo. Non va peraltro dimenticato che la frutta secca è fortemente calorica, e l’apporto calorico che ne deriva andrebbe compensato con la riduzione di altri alimenti.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:2519,2017

SALTARE LA COLAZIONE FA MALE ALL’APPARATO CARDIOVASCOLARE

Cominciare la giornata con un’abbondante colazione fa bene anche all’apparato cardio-circolatorio. Lo dice uno studio coordinato da Valentin Fuster del CNIC di Madrid e del Mount Sinai Heart di New York. I ricercatori hanno esaminato i dati ricavati da questionari sulle abitudini alimentari di 4.052 adulti senza malattie cardiache. Nel complesso, solo il 3% dei partecipanti ha riferito di saltare la prima colazione (SBF), mentre il 69% preferiva un pasto leggero (LBF), il cui apporto calorico ricopriva tra il 5 e il 20% delle calorie complessive della giornata, e il 28% una ricca colazione (HBF), il cui apporto calorico ricopriva più del 20% di quello giornaliero medio. Coloro che saltavano la colazione erano più probabilmente maschi, fumatori e persone a dieta, che consumavano la gran parte delle calorie intorno all’ora di pranzo.

La prevalenza di aterosclerosi preclinica in vari distretti aumentava progressivamente passando da soggetti HBF a LBF e SBF (Figura). I soggetti che saltavano la colazione (SBF) avevano anche la circonferenza vita più ampia, un maggiore indice di massa corporea, e pressione sanguigna, colesterolemia e glicemia più elevati.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:1833, 2017

IDENTIFICATO IL MECCANISMO MOLECOLARE DELL’EFFETTO ANORESSIZZANTE DELLE PROTEINE

È noto che le proteine, e gli aminoacidi di cui esse sono composte, rappresentano i nutrienti più efficaci nel sopprimere la fame e indurre un senso di sazietà. Ricercatori inglesi e tedeschi hanno identificato il meccanismo molecolare (o uno dei meccanismi molecolari) responsabile di tale effetto. Il meccanismo sarebbe innescato da specifici aminoacidi, arginina e lisina, che vengono riconosciuti dai taniciti, cellule specializzate di origine gliale che rivestono regioni ventricolari del cervello in cui la barriera emato-encefalica è interrotta, in particolare il pavimento e le pareti laterali del III ventricolo. Questa localizzazione anatomica garantisce ai taniciti un accesso privilegiato al fluido cerebrospinale (CSF) e al suo contenuto, in particolare agli aminoacidi contenuti negli alimenti. D’altra parte, i lunghi processi terminali dei taniciti proiettano nei nuclei ipotalamici coinvolti nella regolazione di appetito/sazietà. I taniciti possono così fungere da mediatori dell’effetto dei nutrienti sulla regolazione del bilancio energetico.

I ricercatori anglo-tedeschi hanno dimostrato che i taniciti esprimono un recettore, denominato T1r1/T1r3, della famiglia “umami”, recettori presenti nelle papille gustative della lingua, dove sono responsabili della percezione del gusto tipico degli amminoacidi.

L’interazione di arginina e lisina con il recettore “umami” dei taniciti induce un aumento del calcio intracellulare, che promuove la liberazione di ATP, amplificandone il segnale attraverso il recettore P2Y1 (figura). L’ATP liberato dai taniciti raggiunge attraverso le loro terminazioni il nucleo arcuato dell’ipotalamo, informandolo dell’aumentata disponibilità di aminoacidi, e attivando neuroni anoressizzanti che aumentano il senso di sazietà e riducono l’appetito.

Le ricadute pratiche della scoperta sono oggi praticamente nulle. Il meccanismo descritto suggerisce che prediligere cibi ricchi di arginina e lisina (spalla di maiale, controfiletto di manzo, pollo, sgombro, prugne, albicocche, avocado, lenticchie e mandorle) potrebbe favorire il senso di sazietà, ridurre l’appetito e di conseguenza il peso corporeo. Tutto questo va verificato con studi appropriati nell’uomo. Si potrebbero poi identificare degli attivatori diretti del recettore “umami” dei taniciti, da utilizzare nel trattamento del sovrappeso e dell’obesità; in questo caso la strada da percorrere è ancora più lunga.

Mol Metab (IF=6.799) 6:1480, 2017

IL PESO CORPOREO INFLUENZA LA PERCEZIONE DEGLI ALIMENTI

Dolce, fresco, gustoso: con quali aggettivi descriviamo nella nostra mente una fetta di torta? E una mela rossa? Per studiare i fattori che influenzano la valutazione e rappresentazione mentale individuale degli alimenti, un gruppo di ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste ha studiato la risposta cerebrale associata a vari tipi di cibo. Hanno reclutato individui normopeso, sovrappeso e sottopeso, sottoposti a test comportamentali e a un’elettroencefalografia, un’indagine che misura l’attività elettrica del cervello. Su uno schermo venivano mostrate immagini di vari alimenti (frutta, frutta secca, ostriche, pesce, pizza, pasta al sugo, torta di mele) anticipate da frasi che riguardavano caratteristiche percepite tramite i sensi (gusto, olfatto), come “ha un sapore dolce”, oppure una descrizione della loro funzione o del contesto in cui si consumano, per esempio “è ideale per una festa di matrimonio”. Nel frattempo, i ricercatori misuravano la risposta neurofisiologica allo stimolo. È emerso che il i soggetti obesi (BMI>30 kg/m2) presentavano segnali elettroencefalografici diversi rispetto ai soggetti sottopeso (BMI<18 kg/m2). In particolare, le persone con peso in eccesso mostravano una maggiore attività cerebrale nel caso di cibi elaborati, come pizza, dolci, pasta condita con sughi particolari; è come se prestassero una maggiore attenzione, o fossero in qualche modo maggiormente sensibili dal punto di vista della risposta cerebrale, a questi cibi più succulenti o saporiti. Mentre nelle persone sottopeso la risposta cerebrale era maggiormente sollecitata dalla vista di cibi più naturali e non elaborati. L’aumento del peso corporeo è quindi in grado di modificare la rappresentazione mentale di ciò che si mangia, innescando un circolo vizioso che favorisce un ulteriore aggravamento del sovrappeso.

Biol Psychol (IF=3.070) 129:282,2017

VITAMINA D E MALATTIE CARDIOVASCOLARI – 1 – COS’È LA VITAMINA D?

Il termine vitamina D identifica un gruppo di molecole liposolubili a nucleo steroideo con anello “aperto” (figura), le cui forme principali sono l’ergocalciferolo, o vit. D2, e il colecacliciferolo, o vit. D3.

Il termine “vitamina” (che sta a indicare una sostanza indispensabile alla vita che l’organismo non può produrre e pertanto deve essere assunta con gli alimenti) è in questo caso improprio, in quanto la pelle è in grado di sintetizzare vit. D3 a partire dal 7-deidrocolesterolo, per rottura fotochimica prevalentemente ad opera dei raggi ultravioletti. La capacità della pelle di produrre vit. D3 diminuisce con l’età, la pigmentazione e l’uso di filtri solari, ed è influenzata da stagione, distanza dall’Equatore, altitudine e livello di inquinamento. La vit. D3 è pure presente nel pesce e nel rosso d’uovo. La vit. D2 viene invece prodotta dai vegetali per irradiazione di uno sterolo di membrana, l’ergosterolo.

Le vitamine D2 e D3 sono biologicamente inerti e debbono essere attivate da una serie di idrossilazioni; la prima, ad opera del fegato, produce 25-idrossivit. D, che viene poi convertita alla forma attiva 1,25-idrossivit. D nel rene (figura).

La vit. D favorisce l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, il riassorbimento renale di calcio e i processi di mineralizzazione ossea. La carenza di vit. D pertanto diminuisce l’assorbimento intestinale e il riassorbimento renale di calcio, con conseguente aumento dei livelli di paratormone (PTH), attivazione degli osteoclasti e demineralizzazione ossea.

La condizione di carenza di vit. D viene definita monitorando i livelli serici del metabolita inattivo 25-idrossivit. D, che ha un’emivita decisamente più lunga della forma attiva 1,25-idrossivit. D (settimane vs ore), e fornisce una stima dell’effetto combinato di produzione cutanea e assunzione alimentare. Le linee guida correnti indicano valori <20 ng/ml inadeguati a mantenere un adeguato metabolismo osseo, e indicativi di una condizione di deficit di vit. D. Tale deficit si manifesta con una vaga costellazione di sofferenze e dolori muscolo scheletrici, associata a ridotti livelli serici di calcio e fosforo, e aumento della fosfatasi alcalina e del PTH.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:89, 2017