MANGIARE MEGLIO PER VIVERE PIÙ A LUNGO? BASTANO PICCOLI CAMBIAMENTI

Da tempo su questa pagina si sottolinea come una “sana” alimentazione contribuisca al mantenimento della buona salute e promuova la longevità. L’ennesima conferma viene dal prestigioso New England Journal of Medicine, che pubblica uno studio sull’effetto di variazioni nell’alimentazione e mortalità condotto in 47,994 donne reclutate nel Nurses’ Health Study and 25,745 uomini dell’Health Professionals Follow-up Study. I ricercatori hanno utilizzato tre diversi metodi per monitorare la qualità dell’alimentazione di questi individui e le sue variazioni nell’arco di 12 anni. Dimostrano così che anche un modesto miglioramento della qualità dell’alimentazione (basta sostituire una porzione giornaliera di carne con una di legumi) è sufficiente per ridurre dell’8-17% (a seconda del metodo di valutazione della qualità dell’alimentazione) la mortalità per tutte le cause, e del 7-15% la mortalità per malattie cardiovascolari. Più a lungo si mantiene una buona alimentazione, ricca di cereali integrali, vegetali, frutta e pesce, più aumenta la longevità. Al contrario, un peggioramento nella qualità dell’alimentazione si associa a una più elevata mortalità.

N Engl J Med (IF=72.406) 377:143,2017

BERE CAFFÈ FA BENE ALLA SALUTE E ALLUNGA LA VITA

Lo sostengono due importanti studi pubblicati in contemporanea su Annals of Internal Medicine. Il primo, coordinato da Marc Gunter dell’International Agency for Research on Cancer di Lione, ha coinvolto oltre 520.000 individui di 10 Paesi europei, reclutati nel famoso studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition) e seguiti per un periodo medio di 16 anni. Il secondo, coordinato da Veronica Setiawan della University of Southern Califonia a Los Angeles, ha esaminato una coorte multietnica di 185.000 afroamericani, nippoamericani, latinoamericani e caucasici, anch’essi seguiti per circa 16 anni.
Anche se i due studi non sono direttamente paragonabili (il caffè americano è ben diverso da quello che si beve in Europa e Italia), i risultati sono quasi sovrapponibili: bere caffè riduce la mortalità per tutte le cause di più del 10%; si riduce anche la mortalità per malattie cardiovascolari, respiratorie, digestive e renali, e per cancro. Fa eccezione la mortalità per cancro all’ovaio, che aumenta all’aumentare del consumo di caffè. L’effetto salutare del caffè è “dose-dipendente”: rispetto a chi non beve caffè, chi consuma una tazza di caffè americano (da 235 mL, l’espresso è invece intorno ai 40 mL) al giorno ha un rischio inferiore del 12% di morte da tutte le cause, mentre in chi consuma tre o più tazze il rischio di mortalità si riduce del 18%. I risultati sono sostanzialmente identici in tutte le dieci nazioni europee e le quattro etnie americane, a prescindere quindi dalle diverse abitudini rispetto al consumo e alla preparazione del caffè.
Come si spiega l’effetto salutare del caffè? Il caffè contiene numerosi composti, come i polifenoli, gli acidi clorogenici e i diterpeni, tutti con proprietà antiossidanti. Due o tre tazze di caffè hanno un effetto antiossidante pari se non superiore a quello ottenuto consumando frutta e verdura tre volte al giorno. Chi beve caffè ha un migliore controllo glicemico, un minor livello di infiammazione cronica e una migliore funzionalità epatica e immunitaria. Certamente il beneficio non viene dalla caffeina; l’associazione tra caffè e ridotto rischio di morte è stata riscontrata indipendentemente dalla presenza di caffeina nel caffè consumato; quindi anche il “deca” funziona.

Ann Intern Med (IF=17.202)167:228; 167:236; 2017

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo nel paziente diabetico.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

J Am Coll Nutr. (IF=2.107) 36:364, 2017

I CIBI SENZA GLUTINE SONO SOLO PER I CELIACHI!

La celiachia o “malattia celiaca” è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino tenue scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. Il glutine è la frazione proteica alcol-solubile di alcuni cereali, come frumento, orzo e segale. In Italia si stimano circa 600.000 pazienti celiaci, pari all’1% della popolazione, ma i diagnosticati ad oggi sono appena 190.000. L’unica terapia disponibile per la celiachia consiste in una dieta senza glutine (gluten-free diet), che va mantenuta con rigore per tutta la vita.

In anni recenti mangiare cibi senza glutine, facilmente reperibili sul mercato, è diventato relativamente comune anche tra individui non affetti dalla malattia, convinti che sia “più sano” o che possa contribuire a rimanere in buona salute. Sono circa 6 milioni gli italiani che consumano regolarmente cibi senza glutine pur non essendo malati, spendendo così ogni anno 105 milioni di euro nell’acquisto di cibi a loro non necessari.

Tuttavia non esistono evidenze scientifiche a dimostrazione dei presunti benefici per la salute di una dieta “gluten-free” se non si è celiaci. Uno studio della Columbia University di New York, appena pubblicato sul British Medical Journal, ha analizzato i dati di 65000 donne e 45000 uomini non celiaci, seguiti tra il 1986 e il 2010, e divisi in cinque gruppi a seconda del consumo stimato di glutine. La ricerca ha dimostrato che l’esclusione del glutine dall’alimentazione non produce alcun beneficio sul rischio cardiovascolare. Peraltro, i cibi senza glutine hanno generalmente un indice glicemico maggiore, e quindi favoriscono l’innalzamento della glicemia, e cibarsi di alimenti senza glutine esclude dall’alimentazione cereali potenzialmente benefici per il sistema cardiovascolare. Quindi, in chi non è celiaco l’esclusione del glutine è inutile, o addirittura potenzialmente pericolosa.

BMJ (IF=20.785) 357:j1892, 2017.

FRUTTA E VERDURA RIDUCONO IL RISCHIO DI ARTERIOPATIE PERIFERICHE

Numerose ricerche hanno dimostrato che un maggior consumo di frutta e verdura si associa a un minor rischio di sviluppare cardiopatie e ictus, ma non ci sono dati sugli effetti di frutta e verdura sulle arterie degli arti superiori e inferiori. Per colmare questa lacuna Berger e colleghi della New York University School of Medicine hanno analizzato i dati relativi alle abitudini alimentari di 3.696.778 uomini e donne, di cui circa 234.000 avevano sviluppato un’arteriopatia periferica (peripheral artery disease, PAD).

Solo il 29% dei partecipanti allo studio consumava più di tre porzioni di frutta o verdura al giorno, e circa la metà dei partecipanti lo faceva per 3-5 giorni a settimana. Ricordiamo che le Linee Guida del Department of Agriculture/U.S. Health raccomandano di assumere giornalmente 4.5 porzioni di frutta o verdura. Dopo aver corretto i dati per età, sesso, razza e altri fattori di rischio, i ricercatori hanno riscontrato che maggiori erano i consumi di frutta e verdura, minore era la probabilità di sviluppare una PAD. Lo studio dimostra che frutta e verdura proteggono non solo le arterie di cuore e cervello, ma anche quelle degli arti inferiori, che gli americani consumano poca frutta e verdura, e che occorrono campagne di salute pubblica per incrementare il consumo di frutta e verdura nella popolazione generale al fine di ridurre le malattie cardiovascolari.

Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology (IF=6.607) 37:1234, 2017

SODIO E PRESSIONE ARTERIOSA: DA DOVE VIENE IL SODIO CHE MANGIAMO?

Gli studi epidemiologici indicano che un aumento dell’assunzione alimentare di sodio si associa a un aumento della pressione arteriosa (PA). Poiché gli stessi studi epidemiologici indicano nell’aumento della PA, anche a valori al di sotto di quelli che definiscono la condizione di ipertensione (ne abbiamo parlato le scorse settimane), uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare, per la proprietà transitiva, una riduzione dell’apporto alimentare di sodio si traduce in una riduzione della morbilità e mortalità cardiovascolare. Ma per implementare strategie volte a ridurre l’apporto alimentare di sodio dobbiamo capire da dove arriva il sodio che mangiamo. Per rispondere a questa domanda Harnack e i suoi collaboratori hanno condotto un importante studio, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Circulation”. Risultati per certi versi sorprendenti, che si riferiscono a una popolazione mista americana (neri, asiatici, ispanici e caucasici non-ispanici), ma sono verosimilmente riconducibili a quanto avviene anche nel nostro Paese e in altre Nazioni Europee. Ebbene, il 71% del sodio che mangiamo viene aggiunto durante la preparazione degli alimenti che poi andremo ad acquistare in negozi e supermercati; il 14.2% è presente costitutivamente negli alimenti, e solo il ~15% viene aggiunto dopo che gli alimenti sono entrati nelle nostre case: il 5.6% durante la cottura/preparazione delle pietanze, il 4.9% a tavola. Curiosamente, con l’avanzare dell’età, aumenta la quantità di sodio aggiunta dopo l’acquisto, forse a indicare un’alterazione del gusto e una maggior propensione per cibi “salati”. Queste percentuali sono sostanzialmente identiche a quelle rilevate in uno studio simile condotto più di 25 anni fa. In questo periodo, il consumo giornaliero di sodio è però diminuito dell’11%, e questo è ovviamente bene.

La conclusione che possiamo trarre da questo studio è che se vogliamo ridurre l’apporto di sodio con l’alimentazione dobbiamo fare più attenzione a quello che acquistiamo, leggendo bene le etichette e privilegiando alimenti a ridotto contenuto di sodio.

Circulation (IF=19.309) 135:1784, 2017

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017

PANE BIANCO O PANE INTEGRALE?

È opinione comune che il pane bianco sia meno salutare di quello integrale, più ricco di fibre, proteine, vitamina B e minerali. Ma potrebbe non essere così. In uno studio pubblicato sulla rivista Cell Metabolism i ricercatori del Weizmann Institute of Science in Israele hanno seguito venti volontari nell’arco di due settimane: dieci hanno mangiato per una settimana pane integrale e quella successiva pane bianco, gli altri dieci hanno fatto il contrario (questo disegno sperimentale si chiama cross-over, a significare che i trattamenti che si vogliono confrontare vengono somministrati a tutti i pazienti, in una sequenza casuale; in questo modo ogni soggetto funge anche da controllo di sé stesso) .

I ricercatori, prima e dopo ciascun “trattamento” (pane bianco o pane integrale), hanno monitorato una serie di parametri, tra cui la glicemia, il calcio, il magnesio e altri minerali essenziali, il colesterolo e il microbiota intestinale, quello che viene anche definito flora batterica e che comprende tutti i microorganismi che vivono nel nostro intestino (ne abbiamo parlato le scorse settimane).

Lo studio ha rivelato che i livelli di zuccheri, minerali ed enzimi nel sangue erano influenzati dal consumo di pane, ma non era il tipo di pane a fare la differenza, ma le caratteristiche individuali. La risposta glicemica, per esempio, era molto variabile da individuo a individuo, e costante nello stesso individuo, indipendentemente dal tipo di pane consumato. L’unica caratteristica individuale in grado di predire la risposta glicemica era rappresentata dalla composizione del microbiota intestinale, che peraltro non era anch’essa influenzata dal tipo di pane consumato. In altre parole è il microbiota, e non il tipo di pane, che determina la risposta glicemica; per qualcuno è più salutare un tipo di pane, per altri un altro, e dipende dal microbiota.

La ricerca presenta alcuni limiti: il numero di soggetti studiati è limitato, la durata del “trattamento” è breve, non si è tenuto conto degli altri alimenti che i volontari hanno consumato oltre al pane. Non si può (e non si voleva) affermare che un tipo di pane sia meglio dell’altro. Certamente si conferma che il microbiota intestinale svolge un ruolo chiave nella regolazione dell’omeostasi del nostro organismo e della risposta agli alimenti con cui quotidianamente entriamo in contatto.

Korem et al, Cell Metab 25:1243,2017.

UN CONSUMO ECCESSIVO DI CARNI ROSSE FA MALE ALLA SALUTE

Mangiare troppe carni rosse fa male alla salute. L’ennesima conferma viene da un grande studio di popolazione pubblicato sull’ultimo numero del British Medical Journal, nel quale Arash Etemadi (della Divisione Cancer Epidemiology and Genetics, National Cancer Institute, Bethesda, USA) e collaboratori hanno analizzato la relazione tra consumo di carni rosse e processate (salumi, salsicce, wurtel) e mortalità per varie cause, monitorando 536.969 americani adulti residenti in 6 diversi Stati e due aree metropolitane per un periodo di 16 anni. I soggetti sono stati divisi in cinque gruppi, in base al consumo giornaliero di carni rosse/processate: da 9.3 g/1000 kcal nel gruppo a minor consumo a 67.5 g/1000 kcal nel gruppo a maggior consumo. Ad ogni aumento nel consumo di carni rosse/processate corrisponde un aumento della mortalità totale e della mortalità per 8 diverse malattie, nell’ordine (dal maggiore al minore), malattie epatiche, malattie respiratorie, malattie renali, diabete, malattie cardiovascolari, malattie infettive, ictus, e cancro; l’unica malattia che sembra sfuggire a questa regola è la malattia di Alzheimer.

Le ragioni della dannosità delle carni rosse/processate sono diverse. Lo studio sopra citato ha identificato tra i vari responsabili il ferro eme delle carni rosse e i nitriti/nitrati di quelle processate. Altri potenziali fattori sono le sostanze cancerogene che si producono con la cottura (amine eterocicliche e idrocarburi aromatici policiclici), gli additivi e contaminanti presenti nei mangimi animali, il fatto che l’eccessivo consumo di carne comporta un ridotto apporto di frutta e verdura.

BMJ 2017;357:j1957

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American College of Nutrition, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.