DIABETE TIPO 2: ATTENZIONE AI CIBI ULTRA-ELABORATI

I cibi altamente elaborati (“ultraprocessed foods”) sono spesso ricchi di zuccheri, grassi e calorie. Il consumo di questi cibi è stato collegato a un aumento del rischio di sviluppare un’ampia varietà di problemi di salute tra cui malattie cardiovascolari, ipertensione, iperlipidemia, obesità e alcuni tipi di cancro. Uno studio condotto dall’Università di Parigi offre ulteriori prove che collegano il consumo di questi alimenti allo sviluppo di diabete mellito di tipo 2 (DM2).
I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 104.707 adulti non diabetici, 21.800 [20.8%] uomini e 82.907 [79.2%] donne. I partecipanti avevano in media 43 anni all’inizio dello studio e la maggior parte è stata seguita per almeno sei anni. Complessivamente, circa il 17% dell’alimentazione dei partecipanti consisteva in alimenti ultra-elaborati. Il consumo di tali alimenti era maggiore nei soggetti giovani, obesi, fumatori e che svolgevano scarsa attività fisica; inoltre, i soggetti che consumavano maggiori quantità di questi cibi tendevano a introdurre un maggior numero di calorie, con un’alimentazione di scarsa qualità. Durante il periodo di studio, a 821 individui è stato diagnosticato un DM2. I partecipanti sono stati suddivisi in quartili in base al consumo di cibi ultra-elaborati. All’aumentare del consumo ha corrisposto un progressivo aumento nell’incidenza di DM2: 113, 125, 143 e 166 casi per 100.000 anni-persona dal primo (minor consumo) al quarto (maggior consumo) quartile. Ogni aumento di 10 punti percentuali nella quantità di alimenti ultra-elaborati consumata è stato associato a un rischio aumentato del 15% di sviluppare diabete. La connessione tra alimenti ultra-elaborati e diabete permane anche dopo correzione per una serie di marcatori della qualità nutrizionale, per presenza di disturbi metabolici e per eventuali aumenti di peso.
Un’ulteriore prova che limitare il consumo di alimenti ultra-elaborati e privilegiare alimenti non trasformati o minimamente trasformati, oltre a mantenere un’alimentazione nutrizionalmente sana, a basso contenuto di sale, zucchero e grassi, fa bene alla salute.

JAMA Intern Med (IF=20.768) 16 Dec 2019. doi: 10.1001/jamainternmed.2019.5942

DIABETE. LA VITAMINA D NON MIGLIORA LA FUNZIONALITÀ RENALE

Vitamina D, acidi grassi omega-3, o una combinazione dei due non hanno effetto sulla funzionalità renale, valutata come velocità di filtrazione glomerulare (eGFR), nei pazienti diabetici. È quanto emerge da uno studio USA in cui 1312 pazienti con diabete di tipo 2 sono stati suddivisi in quattro gruppi, cui sono stati somministrati 2.000 UI di vitamina D3 più 1 grammo di omega 3 (acido eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico) al giorno (n=370), vitamina D3 (n=333), omega 3 (n=289), o placebo (n=320) per cinque anni.
L’eGFR media al basale era di 85.8 ml/min/1.73m2, ed è diminuita di 12.4 ml/min/1.73m2 nei 932 pazienti con dati disponibili ad entrambi i punti temporali. Non sono state osservate differenze significative tra i quattro gruppi di trattamento nella variazione dell’eGFR (Figura), nella percentuale di pazienti con un declino dell’eGFR ≥40%, che hanno sviluppato insufficienza renale o deceduti.

In un editoriale di accompagnamento all’articolo, ricercatori della Duke University School of Medicine di Durham, nella Carolina del Nord, segnalano che queste evidenze rafforzano il concetto che, negli studi clinici randomizzati, l’integrazione con vitamina D non produce alcun beneficio sulla funzionalità renale. “Ora si può affermare che molte associazioni epidemiologiche tra carenza di vitamina D ed effetti negativi per la salute erano guidate da fattori confondenti residui non misurati; l’unica associazione valida sembra essere quella tra vitamina D e i benefici per le ossa”.

JAMA (IF=51.273) 322:1899,2019

UN ANTICORPO ANTI-CD3 RITARDA LA COMPARSA DI DIABETE DI TIPO 1 IN SOGGETTI AD ALTO RISCHIO

Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune che porta alla distruzione delle cellule pancreatiche di tipo beta deputate alla produzione di insulina e quindi alla dipendenza dall’insulina esogena. Uno studio multicentrico ha valutato se la somministrazione di Teplizumab, un anticorpo monoclonale anti-CD3, sia in grado di ritardare l’insorgenza di diabete di tipo 1 nei familiari di pazienti con la malattia, che non avevano diabete ma erano ad alto rischio di sviluppo della malattia. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a un trattamento di 14 giorni con Teplizumab o placebo. Il follow-up per la progressione a diabete è stato eseguito con l’uso di test orali di tolleranza al glucosio a intervalli di 6 mesi. Un totale di 76 partecipanti (di cui 55 [72%] ≤18 anni) sono stati sottoposti a randomizzazione, 44 nel gruppo Teplizumab e 32 nel gruppo placebo.

La malattia è stata diagnosticata in 19 (43%) dei partecipanti che hanno ricevuto Teplizumab e in 23 (72%) di quelli che hanno ricevuto il placebo. Il tempo trascorso prima della diagnosi di diabete di tipo 1 è stato di 48.4 mesi nel gruppo Teplizumab e 24.4 mesi nel gruppo placebo. L’incidenza annuale di diagnosi di diabete è stata del 14.9% nel gruppo Teplizumab e del 35.9% nel gruppo placebo. Come eventi avversi, sono stati segnalati casi di eruzione cutanea e linfopenia transitoria. Pertanto, si dimostra che Teplizumab è in grado di ritardare la progressione verso il diabete di tipo 1 in soggetti ad alto rischio.

N Engl J Med (IF=70.670) 381:603, 2019

PRE-DIABETE. NON È MAI TROPPO TARDI PER UNA GLICEMIA NORMALE

Nel 2017 il numero di soggetti con pre-diabete nel mondo veniva stimato intorno ai 352 milioni (7.3% della popolazione totale); un numero che le proiezioni per il 2045 danno in drastica crescita, fino a 587 milioni, pari all’8.3% della popolazione. Il pre-diabete rappresenta una condizione ad alto rischio per lo sviluppo di diabete; ogni anno, il 5-10% dei soggetti con pre-diabete progredisce infatti a una condizione di diabete conclamato e secondo l’American Diabetes Association, il 70% dei soggetti con pre-diabete è destinato a sviluppare il diabete. Ma è anche possibile tornare indietro a una condizione di normoglicemia e ci sono studi che dimostrano che ogni anno, il 3% dei soggetti con pre-diabete, nella fascia d’età tra i 25 e i 52 anni, torna a una condizione di normalità. Ma come evolve il pre-diabete in un 60enne?
Se lo sono chiesto gli autori di uno studio condotto al prestigioso Karolinska Institute di Stoccolma, che hanno seguito per 12 anni una popolazione di 2575 individui non diabetici ultra-60enni. I partecipanti sono stati arruolati nell’ambito dello Swedish National Study on Aging and Care-Kungsholmen. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata sui 918 soggetti che all’arruolamento erano pre-diabetici (emoglobina glicata ≥5.7%). Nel 22% di essi la glicemia è tornata normale, ovvero il pre-diabete è regredito; nel 13% il pre-diabete è progredito a diabete conclamato (glicata ≥6.5%) e il 23% è deceduto. Chi presentava all’arruolamento una bassa pressione sistolica, non aveva problemi di cuore e riusciva a perdere peso aveva maggiori probabilità di tornare a una condizione di normoglicemia. Al contrario, l’obesità accelerava inesorabilmente il passaggio da pre-diabete a diabete.

È il primo studio ad aver descritto la storia naturale del pre-diabete in una popolazione anziana. I risultati della ricerca suggeriscono che anche le persone anziane possono tornare a una condizione di normoglicemia grazie alla perdita di peso e a un buon controllo della pressione arteriosa.

J Intern Med (IF=6.051) 286:326,2019

PERCHÉ MANGIARE PANE INTEGRALE PROTEGGE DAL DIABETE?

Chi mangia pane integrale ha livelli di serotonina circolante inferiori rispetto a chi consuma pane bianco, a basso contenuto di fibre. Lo rivela uno studio realizzato dall’Università della Finlandia Orientale e dallo IARC (International Agency for Research on Cancer). La ricerca dimostra anche che il consumo di fibre derivanti dal frumento o dalla segale integrale riduce i livelli di serotonina nel colon degli animali da esperimento (topo). L’effetto salutare del consumo di fibre potrebbe dunque derivare in parte dalla ridotta sintesi di serotonina da parte dell’intestino, che è l’organo maggiormente responsabile della sua produzione.
È noto da tempo che il consumo di cereali integrali si associa a un minor rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari e di alcuni tumori, ma finora non erano noti i meccanismi alla base di questi effetti protettivi. Si ipotizza che potrebbe trattarsi di un effetto legato ad alcune sostanza bioattive presenti nei cereali integrali, di fitochimici e di fibre, a partire dalle quali i batteri intestinali producono una serie di metaboliti biologicamente attivi.
Nello studio clinico, ai partecipanti, finlandesi e napoletani con sindrome metabolica, è stato chiesto di consumare dalle 6 alle 10 fette di pane bianco, a basso contenuto di fibre per 4 settimane; quindi per altre 4 settimane, è stato chiesto loro di mangiare la stessa quantità di pane integrale (di segale o di frumento, supplementato di fibre di segale). Per il resto la loro dieta abituale non subiva variazioni. Al termine dei due periodi di studio veniva prelevato loro un campione di sangue, analizzato in cromatografia liquida e spettrometria di massa per fare il profiling dei metaboliti presenti nel sangue e valutare le differenze tra il primo e il secondo prelievo. Il consumo di segale integrale ha prodotto una significativa riduzione delle concentrazioni plasmatiche di serotonina, rispetto al consumo di pane bianco.
Nello studio sperimentale, i ricercatori hanno indagato nel topo se l’aggiunta di fibre (crusca di segale, di frumento o farina di cellulosa) alla dieta per 9 settimane comportasse variazioni nella produzione di serotonina da parte dell’intestino. I topi nutriti con crusca di segale o di frumento presentavano livelli di serotonina nel colon significativamente più bassi rispetto agli altri animali.
La serotonina è nota soprattutto per il ruolo di neurotrasmettitore a livello cerebrale, tuttavia la quota prodotta dall’intestino resta separata da quella prodotta nel cervello e svolge una serie di funzioni periferiche, compresa la regolazione della motilità intestinale e della produzione di mediatori dell’infiammazione e dell’immunità. Elevati livelli di serotonina circolanti sono poi associati ad elevati livelli di glicemia, mentre bassi livelli di serotonina riducono il rischio di diabete (e forse anche di tumore del colon).

Am J Clin Nutr (IF=6.549) 109:1630,2019

BYPASS GASTRICO E REMISSIONE DEL DIABETE

Secondo uno studio danese, tre quarti dei pazienti diabetici obesi sottoposti a bypass gastrico Roux-en-Y (Rygb) mostrano una remissione del diabete entro un anno dall’intervento. I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 1.111 pazienti con diabete di tipo 2 sottoposti a intervento Rygb tra il 2006 e il 2015. A sei mesi dall’intervento, il 65% dei pazienti era guarito dal diabete; la percentuale è salita al 74% nei successivi sei mesi ed è rimasta invariata per il resto del periodo di studio. I pazienti avevano più probabilità di eliminare il diabete con l’intervento chirurgico quando erano più giovani, convivevano da meno tempo con il diabete e avevano una forma di malattia meno grave; gli uomini hanno ottenuto risultati migliori delle donne. Rispetto ai 1.074 pazienti obesi con diabete di tipo 2 non trattati chirurgicamente, quelli che si sono sottoposti all’intervento hanno avuto meno probabilità di sviluppare complicanze microvascolari, come malattie ai reni o agli occhi. Con la chirurgia, il rischio di retinopatia si è ridotto del 48% e la probabilità di malattia renale si è ridotta del 46%. Entro 30 giorni dall’intervento, il 7.5% dei pazienti è stato ricoverato per complicazioni correlate alle procedure di bypass gastrico.
Dalla diagnosi di diabete, prima viene eseguito l’intervento di bypass gastrico, maggiore sarà il suo potenziale impatto sulla prevenzione di molte complicanze legate al diabete. Dato che comporta un intervento chirurgico addominale importante, sottoporsi a una procedura di bypass gastrico non è certamente privo di rischi per la salute, comprese le complicazioni a breve termine della chirurgia stessa e quelle a lungo termine, come le carenze di micronutrienti dovute al malassorbimento di vitamine e minerali assunti con l’alimentazione.

Diabetologia (IF=6.023) 62:611,2019

UNO SCARSO CONTROLLO GLICEMICO NEL DIABETE TIPO 1 DANNEGGIA IL CUORE CON MECCANISMO AUTOIMMUNE

Uno scarso controllo glicemico nel diabete mellito di tipo 1 è associato a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare, ma i sottostanti meccanismi restano in parte insondati. Un’ipotesi è che l’iperglicemia cronica, tipica di questa condizione, causi un iniziale danno miocardico, a sua volta responsabile dell’induzione di autoimmunità verso il tessuto cardiaco, con rischio di complicanze cardiovascolari a lungo termine. Per indagare tale fenomeno, gli autori di una recente pubblicazione hanno misurato la prevalenza e la tipologia di autoanticorpi cardiaci in pazienti con diabete di tipo 1 arruolati nello studio DCCT (Diabetes Control and Complications Trial) che avevano valori medi di emoglobina glicata ≥9.0% (n = 83) e ≤7.0% (n = 83) durante lo studio. Sono stati poi valutati il successivo sviluppo di calcificazione coronarica (1 misurazione tra il 7° ed il 9° anno nello studio osservazionale post-DCCT EDIC (Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications), i livelli di proteina C-reattiva (misurata tra il 4° e 6° anno dello stesso studio), e l’incidenza di eventi cardiovascolari (definiti come infarto miocardico non fatale, ictus, morte per cause cardiovascolari, insufficienza cardiaca o innesto di bypass coronarico) per un periodo di follow-up mediano di 26 anni. Il gruppo con emoglobina glicata media ≥9.0% mostrava livelli di autoanticorpi cardiaci nettamente superiori rispetto ai controlli, con evidenza di un progressivo aumento degli stessi nel tempo.

In particolare, la percentuale di pazienti positivi per ≥1, ≥2 e ≥3 diversi tipi di autoanticorpi cardiaci nel gruppo con emoglobina glicata ≥9.0% era pari al 46%, 22% ed 11%, rispetto a 2%, 1% e 0% nel gruppo con emoglobina glicata ≤7.0%. La positività per ≥2 autoanticorpi era associata a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari (HR 16.1, IC 95%, 3.0-88.2) e, nell’analisi multivariata, alla presenza di calcificazione coronarica (OR 60.1; 95% CI, 8.4-410.0). I pazienti con ≥2 autoanticorpi, inoltre, mostravano livelli più elevati di proteina C-reattiva (6.0 mg/L contro 1.4 mg/L in pazienti con ≤1 autoanticorpi). In base a queste evidenze, lo scarso controllo glicemico nel diabete mellito di tipo 1 sembra associarsi ad autoimmunità cardiaca. Gli autori dello studio concludono suggerendo un ruolo per i meccanismi autoimmuni nello sviluppo di malattia cardiovascolare nel diabete mellito di tipo 1, possibilmente mediato da fenomeni infiammatori.

Circulation (IF=18.881) 139:730,2019.

DIABETE MELLITO: IL RISCHIO È NELL’ARIA

L’esposizione a lungo termine al particolato fine (con un diametro inferiore a 2,5 μm; PM2.5) si associa a un incremento significativo nell’incidenza di eventi cardiovascolari, specialmente nel sud-est asiatico, dove la maggior parte dei Paesi è alle prese con il problema di un serio inquinamento dell’aria. Lo studio che vi proponiamo oggi ha indagato gli effetti a lungo termine dell’esposizione a PM2.5 sull’incidenza di diabete di tipo 2 in una popolazione di adulti in Taiwan. 147.908 individui non diabetici, di almeno 18 anni di età, sono stati reclutati tra il 2001 e il 2014 in uno studio longitudinale di coorte in cui venivano sottoposti a visite mediche periodiche e ad almeno due misurazioni della glicemia a digiuno. L’incidenza di diabete di tipo 2 è stata definita come riscontro di glicemia a digiuno ≥7 mmol/L (≥125 mg/dL) o come diagnosi medica di diabete segnalata nei successivi appuntamenti. La concentrazione di PM2.5 nell’abitazione di ciascun partecipante è stata stimata utilizzando misurazioni satellitari con una risoluzione di 1×1 km2. La media biennale delle concentrazioni di PM2.5, ottenuta stimando i relativi valori nell’anno della visita di riferimento e in quello antecedente, è stata considerata un indicatore dell’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico da PM2.5. Dopo correzione per una vasta gamma di covariate (età, genere, scolarità, stagionalità, anno, abitudine al fumo, consumo di alcool, attività fisica, assunzione di verdura e frutta, esposizione professionale, BMI, ipertensione e dislipidemia), il rischio di diabete tra i partecipanti esposti al secondo, terzo e quarto quartile di PM2.5 ambientale era significativamente più elevato rispetto a quello dei partecipanti nel primo quartile (HR rispettivamente pari a 1.28, IC 95% 1.18-1.39; 1.27, IC 95% 1.17-1.38; 1.16, IC 95% 1.07-1.26). I partecipanti che riferivano un consumo alcolico occasionale o regolare (più di una volta alla settimana), o che avevano un BMI <23 kg/m2 risultavano più sensibili agli effetti a lungo termine dell’esposizione a PM2.5 ambientale. Gli autori concludono a favore di un rischio più elevato di sviluppare diabete di tipo 2 tra individui esposti a lungo termine a PM2.5 ambientale. L’impatto sulla salute dell’inquinamento atmosferico, specchio di precisi modelli economici, non deve essere trascurato.

Diabetologia (IF=6.023) 2019 Jan 31. doi: 10.1007/s00125-019-4825-1

NUOVI ANTIDIABETICI? A CUOR LEGGERO!

L’impatto dei nuovi farmaci antidiabetici sulla salute cardiovascolare in pazienti con diabete mellito di tipo 2 è stato oggetto di una meta-analisi degli studi clinici con outcomes cardiovascolari condotti sui nuovi antidiabetici (inibitori di DPP-4, agonisti di GLP-1 e inibitori di SGLT-2). L’outcome primario era rappresentato dall’occorrenza di eventi cardiovascolari maggiori (Major Adverse Cardiac Events [MACE]: morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico e ictus non fatali), dalle singole componenti elencate come MACE e dalla morte per qualsiasi causa. Gli endpoint secondari includevano il ricovero per scompenso cardiaco e l’angina instabile. Un totale di 9 studi, che hanno reclutato 87.162 pazienti, ha soddisfatto i criteri di inclusione. Gli inibitori della DPP-4 hanno mostrato un profilo di sicurezza cardiovascolare sovrapponibile al placebo. Gli agonisti del GLP-1 hanno prodotto una significativa riduzione dei MACE (RR=0.92, IC 95% 0.87-0.97), morte per cause cardiovascolari (RR=0.88, IC 95% 0.80-0.97) e morte per qualsiasi causa (RR=0.89; IC 95% 0.82-0.96), mentre gli inibitori di SGLT-2 mostravano una riduzione significativa dell’ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (RR 0.72, IC 95% 0.6-0.86) rispetto al placebo. Gli autori concludono a favore dell’uso in sicurezza, in termini di salute cardiovascolare, dei nuovi farmaci antidiabetici, che sembrano non determinare alcun rischio aggiuntivo di MACE. Il confronto indiretto tra i farmaci della stessa classe non ha mostrato differenze significative nell’incidenza incidenza degli endpoint esaminati.

Prim Care Diabetes (IF=1.702) 2019 Jan 31. doi: 10.1016/j.pcd.2019.01.003

DIABETE TIPO 2. MINOR RISCHIO DI CARDIOPATIE SE SI MANGIA FRUTTA SECCA

Secondo uno studio statunitense, i pazienti diabetici che mangiano regolarmente frutta secca hanno minori probabilità di sviluppare una cardiopatia rispetto a pazienti che lo fanno raramente, se non mai.
I ricercatori hanno somministrato questionari sull’alimentazione a 16.217 pazienti diabetici di tipo 2 di entrambi i sessi, seguiti per diversi anni. Le domande riguardavano il consumo di arachidi e frutta a guscio. Durante lo studio, 3.336 pazienti hanno sviluppato una malattia cardio- o cerebro-vascolare; 5.682 sono deceduti, di cui 1.663 per una patologia cardiovascolare e 1.297 per neoplasia. Dopo correzione per altri fattori di rischio, è emerso che nei pazienti diabetici che mangiavano almeno cinque porzioni a settimana da 28 grammi di frutta secca la probabilità di sviluppare una cardiopatia era ridotta del 17% rispetto ai pazienti che non consumavano più di una porzione a settimana. La mortalità cardiovascolare era ridotta del 34% e la mortalità totale del 31%. Non è stata riscontrata alcuna associazione tra consumo di frutta secca e incidenza di ictus o mortalità per cancro. Il consumo di frutta a guscio come noci, mandorle, noce brasiliana, anacardi, pistacchi, noci pecan, noci macadamia, nocciole e pinoli era più strettamente correlata a un minor rischio di cardiopatia rispetto alle arachidi, che in realtà sono legumi che crescono sottoterra.
È possibile che il consumo di frutta secca contribuisca a migliorare il controllo della glicemia e l’infiammazione grazie, almeno in parte, alla presenza di nutrienti quali acidi grassi insaturi, fibra, vitamina E e folati e di minerali come calcio, potassio e magnesio.
Un motivo per cui la frutta a guscio potrebbe essere più protettiva delle arachidi è che tende ad essere consumata con la buccia o con la scorza esterna, dove si trovano la maggior parte degli antiossidanti, mentre le arachidi vengono generalmente ingerite senza il guscio; le arachidi di solito vengono tostate e salate, e il sale aggiunto potrebbe contrastare il beneficio dei componenti originari del frutto. Questi dati forniscono nuove evidenze a sostegno del consiglio di integrare la frutta secca nei modelli alimentari salutari per la prevenzione delle complicazioni cardiovascolari e dei decessi prematuri nei pazienti diabetici.

Circ Res (IF=15.211) 2019 Feb 19. doi: 10.1161/CIRCRESAHA.118.314316.