METFORMINA E ATEROSCLEROSI PRECLINICA NEL PREDIABETE

Il Diabetes Prevention Program and its Outcome Study (DPPOS), che ha coinvolto 3.234 persone con prediabete, aveva evidenziato come la metformina e l’adozione di corretti stili di vita avessero permesso di ridurre il rischio di sviluppare il diabete rispetto al placebo (N Engl J Med. 346:393, 2002). Una nuova analisi dei dati del DPPOS dimostra che la metformina rallenta la crescita delle calcificazioni aorto-coronariche (CAC). Nel nuovo studio, Ronald Goldberg della University of Miami e il suo team hanno esaminato i dati di 2.029 partecipanti al DPPOS. Al follow-up (14 anni) i ricercatori non hanno riscontrato differenze nella formazione di CAC tra il gruppo placebo e i gruppi che si sono sottoposti solo a un cambiamento dello stile di vita. È stato invece osservato che solo il 75% degli uomini in trattamento con metformina mostrava CAC, rispetto all’84% degli uomini del gruppo placebo; inoltre, la gravità delle CAC era inferiore nel gruppo di pazienti trattati con metformina (39,5 vs. 66,9 AU). Tali differenze sono state registrate solo nei soggetti di sesso maschile, mentre non è stato osservato nessun effetto nelle donne.

Questi risultati forniscono la prima prova che la metformina può proteggere dall’aterosclerosi coronarica negli uomini con prediabete, anche se è necessaria una dimostrazione che la metformina riduce anche gli eventi cardiovascolari in questi soggetti (come avviene nei pazienti diabetici) prima di poter formulare qualsiasi ipotesi terapeutica. Come osservano i ricercatori in una nota, la metformina potrebbe contribuire a ridurre le CAC migliorando la funzionalità endoteliale e migliorando il profilo lipidico dei pazienti, nonché riducendo l’infiammazione. Il differente effetto tra uomini e donne potrebbe essere riconducibile a interazioni ormonali; è stato infatti dimostrato che la metformina riduce i livelli di testosterone negli uomini, ma non nelle donne.

Circulation (IF=19.309) 136:52, 2017

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 2

Come vi dicevo la scorsa settimana, sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Tutti questi farmaci aumentano la secrezione pancreatica glucosio-dipendente di insulina, interagendo con il recettore del GLP-1 (GLP1R) espresso sulla membrana delle cellule beta-pancreatiche, riducono la glicemia e l’emoglobina glicata e sono indicati per il trattamento del paziente con diabete mellito di tipo 2. Gli effetti indesiderati sono rappresentati soprattutto da nausea e vomito, peraltro in progressiva diminuzione con il proseguimento del trattamento, reazioni allergiche e ipoglicemia (quando utilizzati in associazione con insulina o sulfaniluree).

Appartiene alla prima famiglia l’Exenatide, forma sintetica dell’exendin-4, un peptide naturale di 39 aminoacidi prodotto dal Gila Monster, un rettile che vive nel deserto dell’Arizona. Exendin-4 è codificato da un gene distinto da quello del GLP-1 e mostra un’omologia di sequenza del 52% con il GLP-1. L’Exenatide ha una struttura identica alla molecola naturale exendin-4, mostra un’affinità di legame al GLP1R identica al GLP-1 umano, è resistente alla degradazione ad opera della DPP-IV (Figura), viene rapidamente assorbita dopo iniezione sc e si presta a schemi di trattamento basati su due somministrazioni giornaliere. Di Exenatide è stata sviluppata, una forma ritardo (LAR) che viene somministrata una volta alla settimana.

La famiglia degli analoghi sintetici del GLP-1 include quattro prodotti oggi in commercio. Il primo a essere introdotto in terapia, nel 2010, è la Liraglutide: rispetto alla sequenza del GLP-1 umano presenta una sostituzione (arginina al posto di lisina) in posizione 34 e l’aggiunta di un acido grasso a 16 atomi di carbonio ancorato a un residuo di glutammato a sua volta legato alla lisina in posizione 26 (Figura). L’acilazione e la diversa sequenza della molecola ne modificano la farmacocinetica, determinandone un più lento assorbimento dal deposito sottocutaneo, una più lunga emivita per il legame dell’acido grasso con l’albumina circolante e una più lenta degradazione da parte della DPP-IV. Grazie a queste caratteristiche, Liraglutide può essere somministrata per via sc una volta al giorno. Gli altri analoghi sintetici di GLP-1 sono Albiglutide (un dimero del GLP-1 fuso all’albumina), Dulaglutide (il GLP-1 legato covalentemente al frammento Fc dell’IgG4 umana) e Lixisenatide (un derivato dell’exendin-4).

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 1

Il concetto di incretina si sviluppa a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso e definisce l’insieme di sostanze endogene, successivamente identificate come ormoni, responsabili del fenomeno per cui la risposta della secrezione di insulina a una dose standard di glucosio è significativamente superiore se lo stesso glucosio viene somministrato per via orale rispetto alla via endovenosa (Figura). Si è successivamente osservato che questo effetto incretinico dipendeva in larga misura dalla secrezione di due ormoni peptidici prodotti nel tratto gastroenterico: il GIP (gastric inhibitory polipeptide), prodotto dalle cellule K di duodeno e digiuno, e il GLP-1 (glucagon-like peptide-1), prodotto dalle cellule L dell’ileo.

GIP e GLP-1 sono simili in quanto la loro produzione viene stimolata dalla ingestione di cibo, aumentano la secrezione pancreatica di insulina in risposta al glucosio, e vengono rapidamente (emivita di 1-2 minuti) degradati a peptidi inattivi dall’enzima DPP-IV (dipeptidil peptidasi-IV). Il GLP-1 ha funzioni aggiuntive, come il rallentamento dello svuotamento gastrico, la soppressione della secrezione pancreatica di glucagone e la riduzione dell’assunzione di cibo. Il GLP-1 svolge anche un’azione diretta sulla cellula beta pancreatica, con stimolo della proliferazione e neogenesi dalle cellule duttali, e riduzione dell’apoptosi, favorendo così la crescita della massa beta-cellulare. Un ulteriore elemento di distinzione tra i due ormoni riguarda la secrezione nel diabete di tipo 2, ridotta per il GLP-1, inalterata per il GIP.

Con l’identificazione del GLP-1 nei primi anni ’80 e la progressiva dimostrazione dei suoi effetti metabolici si è reso attraente un suo possibile impiego terapeutico, soprattutto nel diabete di tipo 2. In effetti il GLP-1, ottenuto in forma ricombinante, si è dimostrato in grado di migliorare significativamente il controllo glicemico in pazienti con diabete di tipo 2.

Tuttavia un trattamento con GLP-1 non poteva rappresentare una terapia applicabile su larga scala a causa della necessità di ricorrere a una infusione continua per ovviare alla breve emivita. Si sono pertanto esplorate diverse possibilità terapeutiche alternative all’infusione di GLP-1, incentrate sul principio di riprodurne l’azione; di qui il termine di incretino-mimetici. Alcuni composti sono recentemente approdati alla pratica clinica, altri sono in fase avanzata di sperimentazione. Sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Una terza famiglia include molecole, non propriamente incretino-mimetiche, che prolungano l’azione del GLP-1 endogeno, inibendo l’enzima DPP-IV. Ve ne parlerò presto.

TERAPIA GENICA PER LA MALATTIA DI NIEMANN-PICK DI TIPO C? PER ORA È EFFICACE NEL TOPO

La malattia di Niemann-Pick di tipo C è una sfingolipidosi, e fa parte dell’eterogeneo gruppo di malattie ereditarie da accumulo lisosomiale. La prevalenza stimata è circa 1/130.000 nati. La trasmissione è autosomica recessiva; la mutazione più frequente è a carico del gene NPC1, presente nel 95% delle famiglie affette.

Il quadro clinico è estremamente eterogeneo e l’età d’insorgenza della malattia può collocarsi tra il periodo perinatale fin oltre i 50 anni. La forma neonatale è caratterizzata da epato-splenomegalia, con ittero colestatico prolungato che generalmente regredisce spontaneamente, ma che talvolta evolve rapidamente in grave insufficienza epatica, provocando la morte. L’epato-splenomegalia è un segno molto frequente anche nei bambini, che può rimanere isolato fino alla comparsa dei sintomi neurologici. L’età di insorgenza di questi sintomi e la loro evoluzione determinano la gravità della malattia. Nella forma infantile grave (20% dei casi), entro il secondo anno di vita si manifestano disturbi neurologici associati a ritardo dello sviluppo motorio e ipotonia. Nelle altre forme più frequenti i sintomi neurologici caratteristici sono atassia cerebellare e disartria (molto frequenti), cataplessia (20% dei casi), distonia (frequente), oftalmoplegia verticale sopranucleare (quasi costante), patologia convulsiva (relativamente frequente) e, spesso, demenza progressiva che si manifesta tra i 3 e i 15 anni (forme infantili tardive e giovanili, 60-70% dei casi) o successivamente (forma adulta, 10% dei casi, con disturbi psichiatrici più gravi. La prognosi dipende dall’età di insorgenza delle manifestazioni neurologiche ed è più grave nei casi di coinvolgimento precoce delle funzioni neurologiche.

Il difetto cellulare caratteristico consiste in un’anomalia del trasporto intracellulare del colesterolo, con accumulo lisosomiale di colesterolo non esterificato e ritardo dell’innesco delle reazioni di omeostasi del colesterolo.

Attualmente non esiste un trattamento specifico. Nello studio che vi proponiamo oggi sono stati utilizzati topi in cui è stato eliminato il gene NPC1; rappresentano un buon modello della malattia umana perché sviluppano precocemente accumulo lisosomiale di colesterolo, perdita di peso, atassia, deficit neuronali ed elevata mortalità. I topi sono stati trattati una sola volta con un vettore virale non patogeno che veicolava il gene NPC1. Il trattamento ha prodotto una diminuzione dei depositi di colesterolo, una riduzione della perdita neuronale, un rallentamento del declino motorio e un aumento della sopravvivenza. È questa la prima dimostrazione che la terapia genica può rappresentare un opzione per il trattamento di questa malattia. Occorrerà tempo per confermarne sicurezza ed efficacia nel paziente.

Hum Mol Genet (IF=5.340) 26;52, 2017.

LIPODISTROFIE. LA METRELEPTINA MIGLIORA IL METABOLISMO LIPIDICO E GLUCIDICO NEI BAMBINI E ADOLESCENTI

Le lipodistrofie primitive rappresentano un gruppo eterogeneo di malattie rare, ereditarie o acquisite, caratterizzate dalla perdita generalizzata o parziale del tessuto adiposo. La prevalenza stimata è di <1 caso ogni 100.000 individui. Le forme ereditarie si manifestano nell’infanzia, quelle acquisite nell’adolescenza o anche in età adulta. Tutte le distrofie si associano ad alterazioni del metabolismo glucidico, con insulino-resistenza, intolleranza al glucosio e diabete, del metabolismo lipidico, con prevalente ipertrigliceridemia, e steatosi epatica, che può evolvere verso la cirrosi. Il trattamento delle complicanze, diabete, displipidemia e disfunzioni epatiche si basa sulle classiche strategie di intervento, ma ovviamente non corregge la causa della malattia.

La perdita di tessuto adiposo comporta la mancata sintesi di leptina, un ormone proteico prodotto dagli adipociti e coinvolto nella regolazione del bilancio energetico, modulando l’appetito e la spesa energetica. La metreleptina, una forma ricombinante dell’ormone endogeno, si è dimostrata efficace nel correggere alcune alterazioni metaboliche in pazienti adulti con lipodistrofia generalizzata, ed è stata approvata dalle Agenzie Europea e Statunitense per la terapia di tale forma di lipodistrofia.

Nello studio che vi proponiamo oggi i ricercatori del National Institute of Health (NIH) a Bethesda hanno esaminato 53 giovani pazienti (6 mesi-18 anni) con lipodistrofia, deficit di leptina e almeno un’alterazione metabolica (diabete o insulino-resistenza o ipertrigliceridemia). I giovani pazienti sono stati trattati con iniezioni sottocutanee di meterelptina per un anno in aggiunta alle terapie standard. La metreleptina ha diminuito i livelli di emoglobina glicata (HbA1c), un marcatore a lungo termine del metabolismo glucidico, di trigliceridi e delle transaminasi (marcatori di danno epatico). In un numero limitato di pazienti è stata effettuata una biopsia epatica prima e dopo trattamento con metreleptina, che ha evidenziato un generale miglioramento della patologia epatica. Il trattamento non ha avuto effetti negativi sulla crescita e sullo sviluppo dei giovani pazienti.

Se iniziato precocemente il trattamento con metreleptina è efficace nel limitare le complicanze della malattia.

J Clin Endocrinol Metab (IF=5.455) 102:1511, 2017.

LA METFORMINA: UN FARMACO ANTIDIABETICO…MA NON SOLO

Abbiamo già parlato della Metformina e della sua attività antidiabetica, dovuta all’attivazione del sistema LKB1/AMPK (Liver Kinase B1/AMP-activated protein Kinase). Negli organismi multicellulari il sistema LKB1/AMPK ha acquisito ruoli specializzati nella regolazione sistemica oltre che intracellulare del metabolismo energetico. Gli effetti dell’attivazione di questo sistema da parte della Metformina si traducono in numerose e favorevoli modificazioni metaboliche che vanno ben oltre l’effetto ipoglicemizzante: esse comprendono infatti, oltre al minor assorbimento e alla maggiore utilizzazione del glucosio, la riduzione dell’insulinemia, la diminuzione dell’appetito e del peso corporeo, l’aumento della β-ossidazione degli acidi grassi e la riduzione dello stress ossidativo. Queste potenzialità della Metformina contribuiscono, in aggiunta all’attività antidiabetica, alla protezione cardiovascolare esercitata da questo farmaco. Ma di questo parleremo in altra occasione.

Più di quaranta anni fa, sulla base di dati ottenuti in varie specie animali, l’uso della Metformina venne proposto per la prevenzione dell’invecchiamento. A questi dati sperimentali, peraltro non univoci e di entità variabile secondo le specie studiate, si è successivamente aggiunta l’osservazione che i pazienti diabetici trattati con Metformina presentano una minore letalità per tutte le cause, non solo quelle cardiovascolari. I benefici effetti della Metformina sulla sopravvivenza mostrano una stretta somiglianza con quelli indotti dalla restrizione calorica, che in tutti i mammiferi prolunga la durata della vita e riduce l’incidenza o ritarda la comparsa di malattie legate all’invecchiamento. Questo fenomeno ha trovato successivamente spiegazione nel rilievo che l’evento biologico fondamentale indotto dalla restrizione calorica è costituito dalla riduzione dei livelli di insulina e di Insulin Growth Factor-1 (IGF-1) e dall’aumento della sensibilità all’insulina, azioni queste condivise dalla Metformina.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la Metformina è anche in grado di inibire la carcinogenesi sperimentale dei roditori, con un meccanismo indipendente dall’azione ipoglicemizzante. La Metformina, che agisce come “sensibilizzatore” all’insulina negli epatociti, nelle cellule neoplastiche svolge infatti una azione opposta, inibendo l’utilizzazione dell’energia e la proliferazione attraverso una serie di meccanismi molecolari, solo in parte LKB1/AMPK-dipendenti (figura). In fibroblasti embrionali murini e in linee cellulari umane provenienti da neoplasie di colon, mammella e prostata l’attivazione del sistema LKB1/AMPK porta all’inibizione della sintesi proteica e della differenziazione e proliferazione cellulare, così come dell’enzima mTOR (mammalian Target Of Rapamicin), una trasferasi che regola la sintesi proteica e la crescita cellulare. La Metformina inibisce poi direttamente STAT3 (Signal Transducer and Aactivator of Transcription 3) un fattore di trascrizione che modula l’espressione di numerosi geni coinvolti nella proliferazione cellulare e nell’apoptosi. In effetti, numerosi studi retrospettivi indicano che nei diabetici trattati con Metformina la letalità per neoplasie è significativamente minore (di circa il 40%) rispetto a quelli trattati con qualsiasi altro ipoglicemizzante.

Anche se le conoscenze finora acquisite su queste nuove potenzialità di Metformina appaiono molto promettenti, soprattutto in considerazione della maneggevolezza del farmaco anche in soggetti non diabetici, occorrerà certamente un lungo iter di ricerca per accertarne il reale valore.

LA METFORMINA: UN FARMACO ANTIDIABETICO

Nel medioevo gli erboristi europei avevano notato che estratti di una pianta leguminosa, Galega officinalis (chiamata in Italia Capraggine) (figura), erano capaci di ridurre la diuresi in alcuni soggetti poliurici. Solo nel secolo corso si comprese che l’effetto benefico riguardava esclusivamente pazienti diabetici la cui poliuria osmotica veniva ridotta grazie all’azione ipoglicemizzante di un alcaloide, derivato della guanidina, contenuto nei semi e nei fiori della pianta.

Il derivato biguanidinico Metformina (N,N-Dimethylimidodicarbonimidic diamide) fu descritto nel 1922 tra le molecole ottenute nei tentativi di sintesi della N,N-Dimetilguanidina. Nel 1929 l’effetto ipoglicemizzante di Metformina fu descritto nel coniglio, ma la molecola fu dimenticata perché in quegli anni l’attenzione dei diabetologi era concentrata sull’insulina, da poco resa disponibile per l’uso clinico. Nel 1950 il medico filippino Eusebio Garcia, utilizzando Metformina nell’uomo come antibatterico e antipiretico, ne descrive l’efficacia ipoglicemizzante. Si deve però arrivare al 1957 perché, ad opera del diabetologo francese Jean Sterne, Metformina (con il nome Glucophage) venga utilizzata nei pazienti diabetici. Nell’anno successivo Metformina è inclusa nel British National Formulary, nel 1970 è approvata in Canada e solo nel 1994 accettata dalla FDA statunitense. Oggi è il farmaco di prima scelta, come riconosciuto da tulle le Società Scientifiche che si occupano di diabete, nel trattamento del diabete mellito di tipo 2.

Una volta assorbita la Metformina si distribuisce efficacemente nell’organismo e non subisce processi di biotrasformazione, così che il farmaco viene eliminato come tale dal rene. L’attività antidiabetica è dovuta all’inibizione della produzione di glucosio (gluconeogenesi) nel fegato e dell’assorbimento intestinale del glucosio, e all’aumento della sensibilità all’insulina con conseguente aumento della captazione e dell’utilizzazione periferica del glucosio. Queste azioni determinano riduzione della glicemia a digiuno e dopo pasto (20-40%) e dell’emoglobina glicata (HbA1c).

Il meccanismo molecolare dell’azione farmacologica di Metformina, ancora non completamente chiarito, consiste nella inibizione della sintesi mitocondriale di ATP, cui consegue l’attivazione di un sistema di kinasi (Liver Kinase B1/AMP-activated protein Kinase, LKB1/AMPK). Si tratta di un sistema primordiale, presente in tutte le forme viventi (dai lieviti all’uomo), che favorisce la sopravvivenza in condizioni di deficit energetico frenando i processi cellulari energia-dipendenti tra cui appunto la gluconeogenesi epatica e la captazione insulino-dipendente di glucosio nei tessuti extra-epatici. L’attivazione di questo sistema rallenta la sintesi di proteine e di acidi grassi, favorendo la restaurazione dei livelli di ATP.

La Metformina è un farmaco generalmente ben tollerato. Gli effetti collaterali più comuni sono di natura gastrointestinale: nausea, dolori addominali, diarrea. Possono essere sensibilmente ridotti assumendo il farmaco durante i pasti. Talora si può sviluppare acidosi lattica, condizione clinica con elevata letalità caratterizzata da aumento della concentrazione plasmatica di acido lattico. L’acidosi lattica, ripetutamente osservata con l’uso di un analogo della Metformina, la Fenformina, che per questo motivo è stata ritirata dal commercio, è molto rara nei pazienti trattati con Metformina. Con quest’ultima l’acidosi lattica si sviluppa solo in concomitanza di condizioni predisponenti, rappresentate soprattutto da insufficienza renale o epatica, o da grave ipossia tissutale per insufficienza cardiaca o respiratoria. Altra condizione di rischio può essere rappresentata dall’alcolismo, in cui vi è iperlattacidemia per deficit di NAD+. In una recente revisione di 347 studi clinici relativi a 70.490 diabetici/anni di trattamento non è stato registrato alcun caso di acidosi lattica. Osservazioni attendibili indicano che anche nell’insufficienza renale la Metformina, a dosi appropriate – cioè rapportate al filtrato glomerulare di ciascun diabetico –  può essere impiegata con rischi inferiori rispetto ad altri ipoglicemizzanti.

FARMACI INNOVATIVI. I siRNA

Si tratta di farmaci innovativi altamente selettivi definiti “small interfering RNA (siRNA) molecules”, da non confondersi con i farmaci antisenso (ASO), di cui parleremo in altra occasione. I siRNA sono brevi sequenze di RNA a doppio filamento, lunghe generalmente 19-21 nucleotidi, che inibiscono l’espressione di geni attraverso l’attivazione del processo naturale di interferenza dell’RNA (RNAi) all’interno delle cellule.

Hanno durata d’azione prolungata, e vanno somministrati per via parenterale. Nel sangue e nei tessuti i siRNA vengono inattivati dalle nucleasi, enzimi che li degradano, impedendone l’accesso alle cellule bersaglio. Per superare questo problema, i nucleotidi che costituiscono il siRNA vengono modificati chimicamente e il farmaco viene poi generalmente somministrato in forma di nanoparticelle lipidiche, che lo proteggono dalla degradazione, e lo veicolano alle cellule bersaglio.

Una volta entrato nella cellula, il siRNA si dissocia in due filamenti singoli, uno dei quali si lega ad alcune proteine formando il complesso RISC (RNA-Induced Silencing Complex). Incorporatosi nel RISC, il siRNA identifica una sequenza complementare presente sull’mRNA bersaglio, formando un complesso siRNA-mRNA, che porta al “silenziamento” (o degradazione) dell’mRNA (Figura). La degradazione dell’mRNA impedisce la sintesi della proteina da esso codificata. Poiché una sequenza di 19-20 nucleotidi compare una sola volta nell’intero mRNA, il siRNA si legherà a un solo mRNA bersaglio, e inibirà la sintesi di una sola proteina. Di qui l’elevata selettività, che ne suggerisce l’impiego in varie malattie. Sono farmaci non ancora in commercio, ma alcuni di essi sono in fase avanzata di sviluppo clinico.

Per ulteriori informazioni: Wittrup A and Lieberman J, Knocking down disease: a progress report on siRNA therapeutics, Nature Reviews Genetics 16:543, 2015

OLIGONUCLEOTIDI ANTISENSO PER IL TRATTAMENTO DELLE DISLIPIDEMIE

Da Chiara Pavanello

Gli oligonucleotidi antisenso, detti anche ASO (dall’inglese AntiSense Oligonucleotide) rappresentano una delle attraenti tecnologie messe a punto negli ultimi anni per inibire la sintesi di una qualsiasi proteina di interesse, coinvolta nella patogenesi di una malattia. Si tratta di brevi analoghi sintetici di acido nucleico a singolo filamento, disegnati per essere complementari ad una specifica sequenza di RNA messaggero (mRNA), il codice genetico prodotto da uno specifico gene che contiene “l’informazione” per la produzione di una distinta proteina. Il termine “antisenso” sta proprio ad indicare che la sequenza è opposta a quella che dovrebbe essere trascritta.
Quando un ASO si lega al suo mRNA complementare si forma un complesso che può essere selettivamente degradato, da alcuni enzimi, dette endonucleasi, oppure può portare al blocco del ribosoma, il sistema cellulare responsabile della sintesi proteica [Video]. In entrambi i casi viene selettivamente “bloccata” la lettura del codice genetico e la proteina non può essere prodotta.
La strategia farmacologica antisenso è già in uso da alcuni anni nel trattamento di alcune patologie quali la sclerosi laterale amiotrofica, alcuni tipi di tumore e come antivirale, mentre nel campo delle dislipidemie questo approccio è relativamente nuovo. Il vantaggio principale è l’elevata specificità del farmaco, che si traduce in un rischio inferiore di interazioni farmacologiche e di effetti collaterali, rispetto ai prodotti oggi in commercio per il trattamento delle dislipidemie. Inoltre gli ASO si accumulano nel fegato, l’organo dove la maggior parte delle proteine coinvolte nel metabolismo lipidico viene sintetizzata, risultando pertanto particolarmente efficaci nel produrre l’effetto desiderato. Uno dei primi esempi di ASO entrati in commercio (ma non in Europa!) è il mipomersen, indicato nell’ipercolesterolemia familiare omozigote, che si è dimostrato efficace nei trials clinici nel ridurre la colesterolemia anche del 44%. Esso agisce inibendo la produzione epatica dell’apoB100, costituente delle VLDL e LDL, che quindi non vengono assemblate e messe in circolo. Altri ASO sono in fase di sperimentazione clinica per altre forme di dislipidemia, quali ipertrigliceridemia grave e iperLp(a). Volanesorsen, ad esempio, è un ASO disegnato per ridurre la produzione di apoC-III, una proteina che inibisce la clearence plasmatica dei trigliceridi. I primi pazienti trattati hanno ottenuto riduzioni dei trigliceridi comprese tra 56-86% dopo 3 mesi di trattamento, parallelamente ad una minor frequenza degli episodi di pancreatite, principale complicanza delle ipertrigliceridemie gravi. Vi abbiamo già citato invece nelle scorse settimane gli ASO contro apo(a), specificatamente disegnati per inibire la produzione epatica della lipoproteina (a). Altri ASO sono ad oggi in sperimentazione preclinica o nelle prime fasi di sviluppo clinico e rappresentano un esempio di approccio farmacologico ultraselettivo e promettente, che consente di inibire potenzialmente la sintesi di qualsiasi proteina coinvolta nel metabolismo lipidico.

Per approfondimenti: Visser et al. Antisense oligonucleotides for the treatment of dyslipidaemia. Eur Heart J (2012) 33: 1451-1458.

EFFETTI COLLATERALI ed EVENTI AVVERSI dei FARMACI

Non fate confusione!
Questi due termini vengono spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma non sono sinonimi e hanno significati diversi.
Un effetto collaterale è un qualsiasi effetto indesiderato di un farmaco, che insorga a dosi normalmente impiegate nell’uomo e che sia correlato alle proprietà farmacologiche del farmaco.
Un evento avverso è un evento clinico indesiderato, che si presenta durante il trattamento con un farmaco, ma che non ha necessariamente un rapporto di causalità (o di relazione) con il trattamento stesso.