RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E INVECCHIAMENTO

La rigidità arteriosa, valutata misurando la Pulse Wave Velocity aortica, come abbiamo visto nei giorni scorsi, costituisce un marcatore integrato dell’azione di numerosi fattori di rischio cardiovascolare.

L’età rappresenta il principale determinante della rigidità arteriosa. Con l’età e con il ripetersi di cicli di stress, le fibre elastiche vanno incontro a fratturazione e frammentazione, con conseguente dilatazione del vaso e irrigidimento della parete. Il progressivo irrigidimento dell’aorta che si osserva con l’età non è un innocuo e inevitabile effetto “fisiologico” dell’invecchiamento, ma comporta almeno due conseguenze emodinamiche sfavorevoli: a) l’aumento della velocità sia dell’onda incidente che di quella riflessa fa sì che l’onda riflessa si fonda con quella incidente più precocemente, ossia già nella prima della parte della sistole, invece che alla fine della sistole. Ciò aumenta la pressione sistolica aortica (con conseguente aumento del post-carico cardiaco) e riduce la pressione diastolica, che riduce il flusso ematico miocardico, favorendo l’evoluzione verso l’ischemia miocardica e l’insufficienza cardiaca; b) l’aumento della rigidità arteriosa è molto più marcato nelle arterie elastiche (aorta e carotidi) che nelle arterie muscolari (più periferiche). Succede così che con l’età la rigidità aortica raggiunga e superi quella periferica, riducendo o addirittura invertendo il normale gradiente centro-periferia che è il principale responsabile della riflessione dell’onda sfigmica. Ciò fa sì che il sito di riflessione dell’onda si sposti con l’età più distalmente e che l’entità dell’onda riflessa si riduca. Tutto ciò aumenta la trasmissione in periferia di un’ampia onda incidente, che espone arterie ed arteriole periferiche a livelli dannosi di pulsatilità pressoria e può contribuire all’ampio spettro di alterazioni micro vascolari che si osservano comunemente nell’anziano, specialmente negli organi ad alto flusso e bassa resistenza come l’encefalo e i reni.

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017

COME SI MISURA LA RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS)?

La scorsa settimana vi ho descritto cos’è la rigidità arteriosa (arterial stiffness). Vediamo oggi come si può valutare. Per una misurazione diretta della rigidità arteriosa è necessario misurare contemporaneamente, in maniera accurata e nello stesso segmento arterioso, l’andamento istantaneo della pressione e del calibro del vaso. Ciò è ottenibile solo con metodiche invasive, attraverso un accesso intraarterioso e l’uso contemporaneo di trasduttori di pressione e di sensori di flusso. La necessità dell’approccio invasivo ha ovviamente limitato lo sviluppo e l’applicazione clinica su larga scala di tale procedura.

È possibile però stimare la rigidità di un vaso o dell’intero sistema arterioso in maniera non invasiva. Negli anni sono state proposte molte misure non invasive di rigidità arteriosa, tra le quali la distensibilità/compliance arteriosa, la velocità dell’onda sfigmica, l’augmentation aortica (ossia il contributo dell’onda riflessa alla pressione differenziale aortica), la compliance oscillatoria, la pressione differenziale, e l’ambulatory arterial stiffness index derivato dalla relazione tra pressione arteriosa sistolica e diastolica durante un monitoraggio pressorio nelle 24 ore. Ciascuna di queste misure ha importanti limitazioni che ne condizionano l’utilizzo.

Tra le misure di arterial stiffness, si è nel tempo affermata come parametro di riferimento la velocità dell’onda sfigmica o di polso (pulse wave velocity, PWV), che trova fondamento sulla nozione che con l’aumento della rigidità di un’arteria aumenta la velocità di trasmissione dell’onda sfigmica. La PWV è considerata il gold standard tra gli indici di stiffness, in quanto mantiene il suo valore predittivo e prognostico anche dove altri indici si rivelano inaffidabili. La PWV si misura in metri al secondo e rappresenta la velocità con cui il flusso generato dal cuore si propaga all’interno dell’albero arterioso. Valori normali di questo parametro sono intorno ai 9-10 m/s, valore che aumenta con l’incremento della stiffness. Vi sono differenti metodi per misurare la PWV. L’arrivo dell’onda sfigmica è registrato in una arteria prossimale, come la carotide comune, e contemporaneamente in una distale, come la radiale o la femorale. La posizione superficiale di queste arterie rende possibile la valutazione dell’onda in maniera non invasiva (tonometrica, piezoelettrica, Doppler, impedenziometrica). Il tempo di ritardo tra l’arrivo di una parte dell’onda nei due siti e la distanza misurata tra essi permette la valutazione della PWV. La distanza misurata è una stima della reale lunghezza del letto arterioso esplorato, che non è perfettamente rettilineo. La PWV aortica può essere studiata anche tramite risonanza magnetica. La metodica ha il vantaggio di descrivere la reale lunghezza del vaso, anche se i costi e le difficoltà tecniche nell’eseguire studi con dei forti campi magnetici ne hanno limitato l’utilizzo.

Per approfondimenti si veda: Schillaci G, Parati G. Ambulatory arterial stiffness index: merits and limitations of a simple surrogate measure of arterial compliance. J Hypertens 2008; 26:182-185.

LA LIPOPROTEINA(a) COME FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Da Chiara Pavanello

La settimana scorsa vi abbiamo già anticipato l’associazione tra lipoproteina(a), una lipoproteina molto simile alle LDL, e malattia cardiovascolare. Chi ha una concentrazione plasmatica di Lp(a) elevata (superiore a 50 mg/dL) presenta infatti un rischio per infarto del miocardio, ictus e arteriopatia periferica 4 volte superiore rispetto a chi ha basse concentrazioni [Clarke et al., NEJM 2009, Kamstrup et al. JAMA 2009], anche quando il livello di colesterolo LDL è normale! Recentemente, è stato riconosciuto un ruolo causale di questa lipoproteina nella patogenesi della calcificazione della valvola aortica [Vongpromek et al. J Int Med 2015]. Ulteriori conferme arrivano dallo studio CardiogramPlus4CD: in quasi 64000 soggetti con infarto miocardico, il gene LPA, che determina le concentrazioni plasmatiche di Lp(a), era quello con l’associazione più forte con la patologia coronarica (anche più delle LDL!) [CardiogramPlus4CD Consortium, Nat Genet 2013].

La Lp(a) quando in elevate concentrazioni infatti sembra essere patologica principalmente mediante due meccanismi (figura): come le LDL, viene ossidata facilmente e questo la porta ad accumularsi nella parete dei vasi, promuovendo la risposta infiammatoria e il processo aterosclerotico; si sostituisce al plasminogeno, al quale è strutturalmente simile, e ne limita la funzione, cioè quella di “sciogliere” i coaguli di sangue nei vasi sanguigni.

Le linee guida della Società Europea dell’Aterosclerosi considerano livelli ottimali di Lp(a) < 50 mg/dL, anche se alcuni studi epidemiologici, ad esempio il Copenhagen Heart Study, hanno dimostrato un rischio elevato anche a concentrazioni inferiori (20-30 mg/dL).

CARDIoGRAMplusC4D Consortium, Deloukas P, Kanoni S, et al. Large-scale association analysis identifies new risk loci for coronary artery disease. Nat Genet 2013;45:25–33.
Clarke R, Peden JF, Hopewell JC, et al., PROCARDIS Consortium. Genetic variants associated with Lp(a) lipoprotein level and coronary disease. N Engl J Med 2009;361:2518–28.
Kamstrup PR, Tybjærg-Hansen A, Steffensen R, et al. Genetically elevated lipoprotein(a) and increased risk of myocardial infarction. JAMA 2009;301:2331–9.
Vongpromek R, Bos S, Ten Kate GJ, et al. Lipoprotein(a) levels are associated with aortic valve calcification in asymptomatic patients with familial hypercholesterolaemia. J Intern Med 2015; 278:166–73.

COS’È LA SINDROME METABOLICA?

La sindrome metabolica è una situazione patologica caratterizzata dalla presenza simultanea nello stesso paziente di diversi disordini metabolici:
1) elevata circonferenza del giro vita, maggiore o uguale a 102 cm negli uomini e 88 cm nelle donne;
2) elevato livello di trigliceridi, maggiore o uguale a 150 mg/dl;
3) ridotto livello di colesterolo HDL, minore di 40 mg/dl negli uomini e 50 mg/dl nelle donne;
4) elevata pressione arteriosa, maggiore o uguale a 130 mmHg per la pressione sistolica e 85 mmHg per la pressione diastolica;
5) elevata glicemia a digiuno, maggiore o uguale a 100 mg/dl.

La diagnosi di sindrome metabolica viene fatta quando siano presenti 3 fattori su 5 di quelli sopra elencati. Colpisce circa il 20-25% degli individui sopra i 50 anni e raddoppia il rischio vascolare.

COS’È LA RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E PERCHÉ STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE?

Le grandi arterie elastiche, e in particolare l’aorta, rivestono due fondamentali funzioni fisiologiche. Da un lato consentono la conduzione del sangue dal cuore alle arterie periferiche, dall’altro agiscono da “cuscinetto”, permettondo la trasformazione del flusso pulsatile, generato dall’azione cardiaca, in uno continuo, proprio dei tessuti periferici. Negli ultimi anni si è assistito a un notevole aumento dell’interesse della comunità scientifica e medica per le proprietà funzionali delle grandi arterie, soprattutto per la rigidità arteriosa (arterial stiffness) come parametro fisiologico e clinico.

Per rigidità arteriosa si intende la ridotta distensibilità dei vasi arteriosi che nel caso delle arterie centrali di grosso calibro (aorta, carotidi) riflette sia complesse variazioni strutturali, come la deposizione di collagene, sia alterazioni della funzione endoteliale. Dirette conseguenze dell’irrigidimento sono la perdita della funzione di “cuscinetto” delle arterie. I tessuti cardiaco e cerebrale, per le loro caratteristiche anatomiche, sono più esposti alle conseguenze emodinamiche dell’irrigidimento arterioso, quali l’aumentata pressione differenziale e la ridotta perfusione coronarica.

L’aumento dell’interesse per la rigidità arteriosa deriva dalla concomitanza di diversi fattori: 1) la disponibilità di strumenti che permettono di misurare la rigidità arteriosa in maniera accurata, non invasiva e ripetibile; 2) la migliore comprensione della fisiologia delle onde pressorie e delle loro modificazioni nelle varie condizioni fisiologiche e patologiche; 3) i risultati di numerosi studi clinici che hanno documentato un’associazione indipendente della rigidità arteriosa con morbilità e mortalità cardiovascolare.

La rigidità arteriosa si definisce come la pressione necessaria per ottenere una determinata dilatazione in un segmento arterioso (rigidità arteriosa segmentaria) o nell’intero albero arterioso (rigidità arteriosa totale). Per una misurazione diretta della rigidità è necessario misurare contemporaneamente, in maniera accurata e nello stesso segmento arterioso, l’andamento istantaneo della pressione e del calibro. Ciò è ottenibile solo con metodiche invasive, attraverso un accesso intraarterioso e l’uso contemporaneo di trasduttori di pressione e di sensori di flusso. La necessità di una procedura invasiva ha ovviamente limitato la misurazione su larga scala della rigidità arteriosa, finché non sono state sviluppate metodiche non invasive che ne hanno notevolmente ampliato l’applicazione clinica. Tra queste si è andata affermando la misurazione della velocità dell’onda sfigmica carotideo-femorale. La prossima settimana vedremo di cosa si tratta.

LE INFEZIONI RESPIRATORIE AUMENTANO IL RISCHIO DI INFARTO. UN MOTIVO IN PIÙ PER VACCINARSI IL PROSSIMO AUTUNNO

Secondo la teoria della “risposta al danno”, il substrato fisiopatologico dei fenomeni aterotrombotici responsabili degli eventi coronarici acuti, come l’infarto del miocardio, è rappresentato dalla presenza di un milieu flogistico cronico. In questo contesto le infezioni batteriche, attraverso meccanismi multipli, possono esserne ragionevole causa o concausa.

Uno studio pubblicato su Internal Medicine Journal dimostra che le infezioni delle vie respiratorie (polmoniti, influenza, bronchiti, ecc) hanno un effetto molto rapido sul rischio di infarto del miocardio. Lo studio ha preso in esame 578 pazienti con infarto, in grado di dare informazioni su una pregressa infezione delle vie respiratorie nei giorni precedenti l’infarto. Il 17% dei pazienti aveva presentato sintomi di malattie respiratorie entro 7 giorni dall’infarto, il 21% nel mese precedente all’infarto. Il rischio di infarto aumentava di ben 17 volte nella settimana successiva a un’infezione delle vie respiratorie, per ridursi poi gradualmente, pur rimanendo ancora elevato per un mese. Anche i pazienti con patologie infiammatorie a carico delle prime vie aeree (raffreddore, faringite, rinite, sinusite) sono risultati a elevato rischio di infarto; in questo caso il rischio è aumentato di 13 volte.

Le infezioni respiratorie possono scatenare un infarto per vari motivi: attraverso un aumento della coagulabilità del sangue, per il danno ai vasi indotto da infiammazione e tossine, per le alterazioni del flusso sanguigno. L’incidenza di infarto in molti Paesi è molto più elevata nei mesi invernali. Questo picco stagionale potrebbe, alla luce di questi risultati, essere dovuto almeno in parte alle infezioni respiratorie. Si dovrebbero quindi prendere tutte le precauzioni possibili per ridurre l’esposizione a tali infezioni; in quest’ottica risulta molto appropriato sottoporsi alle vaccinazioni anti-influenzale e anti-pneumococcica.

COS’È L’IPERTENSIONE?

La pressione arteriosa è la forza con cui il sangue viene spinto dal cuore nel circolo sanguigno. A ogni battito del cuore, il sangue esce dal ventricolo sinistro attraverso la valvola aortica, passa nell’aorta, e si distribuisce in tutte le arterie. Quando il cuore si contrae e il sangue passa nelle arterie, si registra la pressione arteriosa più alta, detta ‘sistolica’ o ‘massima’; tra un battito e l’altro il cuore si riempie di sangue e all’interno delle arterie si registra la pressione arteriosa più bassa, detta ‘diastolica’ o ‘minima’. La pressione arteriosa si misura a livello periferico, usualmente al braccio sinistro, e viene espressa in millimetri di mercurio, con due numeri che indicano la pressione sistolica e diastolica.

La classificazione delle Società Europee dell’Ipertensione e di Cardiologia è relativamente complessa e identifica stadi diversi di ipertensione (Tabella): si considera ‘ottimale’ una pressione sistolica inferiore a 120 mmHg con una pressione diastolica inferiore a 80 mmHg, mentre vengono considerati “normali” valori di pressione sistolica tra 120 e 129 mmHg e/o di diastolica tra 80 e 84 mmHg. Per valori di pressione sistolica tra 130 e 139 mmHg e/o di diastolica 85 e 89 mmHg si parla di pressione “normale alta”, una condizione che non si può ancora definire ipertensione arteriosa, ma che predispone l’individuo a divenire iperteso con il passare degli anni (viene anche definita “pre-ipertensione”). Valori di pressione sistolica superiori a 140 mmHg e/o di diastolica superiori a  90 mmHg definiscono una condizione di IPERTENSIONE ARTERIOSA, che può essere distinta in tre gradi di gravità. Si parla infine di ipertensione ‘sistolica isolata’ in presenza di un aumento della sola pressione sistolica (cioè ≥ 140 mmHg), con valori di diastolica inferiori a 90 mmHg; è una condizione tipica dell’anziano. L’ipertensione è un fattore di rischio maggiore per l’insorgenza di ictus, infarto del miocardio, aneurismi, arteriopatie periferiche, insufficienza renale cronica, retinopatia, decadimento cognitivo e più in generale disabilità, e pertanto la pressione arteriosa deve essere tenuta costantemente sotto controllo.

L’ipertensione arteriosa si distingue in ipertensione primaria e secondaria. Solo nel 4-5% dei soggetti ipertesi l’ipertensione è secondaria a cause identificabili o note, come malattie endocrinologiche o renali, mentre nel 95% dei casi l’ipertensione è primaria o “essenziale”,  cioè senza una causa specifica e identificabile. La familiarità, il sovrappeso, la sedentarietà e una dieta ricca di sale possono contribuire allo sviluppo di un’ipertensione primaria.

L’ipertensione arteriosa è una condizione quasi sempre asintomatica, anche se elevati valori pressori spesso si associano a cefalea, sensazione di “testa pesante”, una certa instabilità posturale. Vere e proprie crisi ipertensive si associano invece a sintomatologia cardiovascolare come il dolore toracico, dispnea (cattiva respirazione) e sudorazione fredda. La prevalenza di ipertensione arteriosa è molto elevata nelle popolazioni occidentali e aumenta all’aumentare dell’età. In Italia si stima che almeno 15 milioni di individui siano ipertesi. Solo la metà di essi ne è consapevole. Controllare regolarmente la pressione arteriosa e mantenerla a livelli ottimali attraverso l’adozione di uno stile di vita sano (vedremo domani come), e assumendo specifiche terapie quando necessario, secondo l’indicazione del medico curante, è fondamentale per prevenire eventuali danni di un’ipertensione cronica a carico del cervello, del cuore, delle arterie e dei reni.

NEL MONDO IL FUMO DI SIGARETTA CAUSA ANCORA TROPPE MORTI

La prestigiosa rivista ‘The Lancet’ pubblica un rapporto basato su dati del ‘Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study’ (GBD), che ha valutato l’effetto del fumo su mortalità e morbilità in 195 nazioni, nei 25 anni che vanno dal 1990 al 2015. Oggi nel mondo il 25% dei maschi e il 5.4% delle femmine fuma, anche se la prevalenza dei fumatori attivi ha fatto registrare una cospicua riduzione a partire dal 1990 (-28,4% nei maschi e -34,4% nelle femmine), più marcata negli anni tra il 1990 e il 2005, che nel decennio successivo (2005-2015). La riduzione della prevalenza dei fumatori mostra un pattern assai eterogeneo sia per area geografica, che per livello socio-economico e sesso, ed è minore nelle donne dei Paesi a basso e medio indice socio-demografico.

Nel 2015, 6,4 milioni di decessi (l’11,5% della mortalità totale nel mondo) erano attribuibili al fumo, con un aumento del 4,7% rispetto al 2005; oltre la metà (52,2%) dei decessi era concentrata in 4 Paesi: Cina, India, USA e Russia). Il fumo è stata la seconda causa di mortalità in entrambi i sessi, dopo l’ipertensione. Dal 2005 al 2015 la mortalità attribuibile al fumo è aumentata (dell’11,4%) in un solo Paese, l’Egitto, ed è diminuita in 82 Paesi sui 195 analizzati. Nel 2015 il fumo era anche la principale causa di disabilità, con particolare impatto su malattie cardiovascolari (41,2%), cancro (27,6%), e malattie respiratorie croniche (20,5%).

Una sfida cruciale per la salute della popolazione mondiale è rappresentata dal riuscire a prevenire sempre più che le persone si accostino alla sigaretta e allo stesso tempo a portare sempre più persone ad abbandonarla. Gli Autori concludono con un invito ad accelerare le misure per il controllo del fumo: “È sicuramente possibile fare di meglio e di più, ma questo richiede un rafforzamento e un’implementazione delle politiche di controllo del fumo, con un maggior impegno politico a livello nazionale e globale, che vada oltre quello che ha portato ai successi degli ultimi 25 anni.”

Smoking prevalence and attributable disease burden in 195 countries and territories, 1990–2015: a systematic analysis from the Global Burden of Disease Study 2015. Lancet 389:13,2017.

FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE NEL BAMBINO FAVORISCONO LO SVILUPPO DI DEFICIT COGNITIVI IN ETÀ ADULTA

È noto che la presenza di fattori di rischio cardiovascolare, come ipertensione, dislipidemia e fumo, nell’adulto lo espone ad una maggior probabilità di sviluppare deficit cognitivi con l’avanzare dell’età. Ma cosa succede prima?

Per rispondere a questa domanda, ricercatori finlandesi hanno seguito negli anni, a partire dal 1980, più di 3500 bambini/adolescenti (età 3-18 anni); nel 2011, all’età di 34-49 anni, 2026 di essi sono stati riesaminati per valutare vari aspetti delle funzioni cognitive. I risultati di questa analisi sono stati recentemente pubblicati sul Journal of American College of Cardiology.

La presenza nei bambini e adolescenti di fattori di rischio cardiovascolari, come valori elevati di pressione arteriosa e colesterolo totale, o fumo di sigaretta, si associava in età adulta a peggiori performance cognitive, soprattutto per quanto riguarda memoria e apprendimento, e l’associazione di più fattori di rischio aggravava ulteriormente la situazione. L’associazione era indipendente dalla presenza degli stessi fattori di rischio nell’età adulta.

Occorre quindi implementare fin dai primi anni di vita misure di controllo e correzione dei fattori di rischio cardiovascolare, al fine di prevenire lo sviluppo futuro non solo di malattie cardiovascolari su base aterosclerotica, ma anche dei deficit cognitivi tipici dell’anziano.

Rovio SP et al, JACC 69:2279,2017