IL RISCHIO DI DEMENZA VASCOLARE È MAGGIORE NEI PAZIENTI CON PREGRESSO INFARTO MIOCARDICO

Questo studio danese ha analizzato il rischio di demenza a lungo termine in pazienti con infarto miocardico acuto (IMA). Nello studio sono stati inclusi tutti i pazienti con prima diagnosi di IMA nel periodo 1980-2012 (n=314.911), confrontati con una coorte di controllo della popolazione generale (n=1.573.193), selezionata in modo random dopo matching per sesso, anno di nascita e anno di diagnosi di IMA. La popolazione comprendeva prevalentemente soggetti di sesso maschile (63%). Dopo un follow-up di 35 anni, l’incidenza di demenza da tutte le cause non era diversa nei sopravvissuti all’IMA rispetto ai controlli (+1%); altrettanto simile era l’incidenza di demenza da malattia di Alzheimer. Al contrario, i sopravvissuti all’IMA avevano una probabilità maggiore di sviluppare una demenza vascolare (+35%); il rischio aumqntava di quasi 5 volte in coloro che avevano avuto anche uno stroke.

Diverse possono essere le cause dell’associazione tra IMA e demenza vascolare. Dall’ipoperfusione cerebrale associata alla disfunzione ventricolare sinistra, alle conseguenze della coronaropatia, quali fibrillazione atriale e alterazioni della cinetica di parete del ventricolo sinistro, con possibile formazione di trombi intracardiaci e conseguente embolizzazione cerebrale. Inoltre, il trattamento chirurgico dell’IMA è causa di ipoperfusione cerebrale (durante la cardioplegia) e di possibile embolizzazione (dopo il clamp dell’aorta). Infine, IMA e demenza potrebbero rappresentare entrambi il risultato dell’azione sinergica di più fattori di rischio cardiovascolare, responsabili del danno coronarico e, con un periodo di latenza maggiore, di quello cerebrovascolare.

Circulation (IF=19.309) 137:567,2018

IL PRIMO ATLANTE DELLE PROTEINE DEL CUORE

Un gruppo di scienziati tedeschi ha tipizzato le proteine del cuore, realizzando così la prima mappa proteomica di questo organo vitale. Uno strumento che diventerà il benchmark del cuore sano, da confrontare con cuori patologici, per scoprire le differenze a livello molecolare. Un enorme passo avanti verso la medicina di precisione in cardiologia.

Il cuore umano batte nel corso della vita 2 miliardi di volte e ogni contrazione è controllata da una complessa interazione tra segnali elettrici e forze meccaniche. Quattro sono i tipi principali di cellule coinvolte in questa attività: fibroblasti, cardiomiociti, cellule muscolari lisce e cellule endoteliali. Alla base di questo complesso apparato ci sono le proteine, circa 11.000 quelle individuate dai ricercatori del Max Planck Institute of Biochemistry e del German Heart Centre della Technical University of Monaco, che hanno sistematicamente classificato le proteine di ogni popolazione cellulare del cuore, realizzando in questo modo il primo atlante di proteomica del cuore umano.
Un lavoro enorme che consentirà di individuare le differenze tra un cuore sano e uno malato, contribuendo così a definire le cause delle diverse patologie cardiache.
I prossimi passi della ricerca consisteranno nel validare questo atlante come riferimento per individuare variazioni presenti in cuori malati. I primi risultati di questa analisi stanno fornendo utili indizi nei pazienti con fibrillazione atriale, un disturbo del ritmo cardiaco. In particolare sono emerse differenze importanti per quanto concerne le proteine del metabolismo energetico delle cellule, che appaiono tuttavia diverse anche tra individui con la stessa patologia. Queste differenze tra individui con la stessa aritmia sottolineano ancora una volta quanto sia importante la medicina personalizzata: sebbene la patologia sia la stessa, i pazienti presentano una diversa disfunzione a livello molecolare.

Nature Commun. (IF=12.124) 8:1469, 2017

COS’È LA DISFUNZIONE ENDOTELIALE?

L’endotelio forma il rivestimento interno di arterie e vene, nonché la parete dei capillari. Non costituisce solo una barriera di separazione tra il compartimento ematico e quello tissutale, ma è un vero e proprio organo capace di svolgere un ruolo chiave nella modulazione del tono vascolare, nell’inibizione dell’aggregazione piastrinica, nella proliferazione della muscolatura liscia vascolare e, in determinate condizioni, anche nell’angiogenesi.

In risposta a stimoli fisici e chimici, l’endotelio è in grado di rilasciare numerose sostanze vasoattive. Tra queste sono incluse: il monossido d’azoto (NO), le endoteline, diverse prostaglandine tra cui la prostaciclina, il fattore di crescita endoteliale, il fattore attivante le piastrine (PAF), le molecole di adesione cellulare (VCAM ed ICAM), le citochine, lo ione superossido, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI 1), il trombossano A2 ed il fattore Von Willebrand. Parte di queste sostanze sono secrete dalle cellule endoteliali e agiscono su cellule della parete vasale site nelle immediate vicinanze (azione paracrina) o sono immesse in circolo per un’azione a distanza (azione endocrina). Altre molecole prodotte dall’endotelio esplicano la loro azione rimanendo legate alla superficie delle cellule endoteliali che le hanno prodotte: questo è il caso delle molecole di adesione per i leucociti o per quelle coinvolte nella coagulazione. Alcune di queste sostanze sono prodotte costitutivamente, ovvero in condizioni basali in assenza di stimoli, altre in seguito all’attivazione da parte di stimoli spesso di tipo infiammatorio.

Quando la capacità delle cellule endoteliali di elaborare le sostanze prodotte in condizioni fisiologiche è compromessa, si sviluppa una disfunzione endoteliale, che può essere misurata valutando la capacità delle arterie di dilatarsi in risposta a opportuni stimoli. Nelle prossime settimane vedremo come.

 

VITAMINA D E DISFUNZIONE ENDOTELIALE

Come sapete, la disfunzione endoteliale gioca un ruolo rilevante nella patogenesi dell’aterosclerosi ed è un fattore di rischio per lo sviluppo di eventi ischemici. La carenza di vitamina D, come l’abbiamo definita la scorsa settimana, ha effetti negativi sulla funzione endoteliale, che potrebbero promuovere l’aterogenesi.

È provato che la carenza di vit. D si associa a una riduzione della vasodilatazione flusso-mediata (flow-mediated dilatation, FMD), un indicatore di disfunzione endoteliale che a sua volta si associa ad aterosclerosi preclinica ed è un predittore di eventi cardiovascolari. D’altro canto, alcuni studi dimostrano che la supplementazione con vit. D in soggetti carenti migliora significativamente la FMD. Una metanalisi di tutti i trials randomizzati disponibili esclude un beneficio della supplementazione, che però potrebbe essere efficace nel migliorare la FMD in alcune categorie di pazienti, che già presentano una disfunzione endoteliale, come gli ipertesi.

I meccanismi attraverso i quali la carenza di vit. D potrebbe favorire l’insorgenza di una disfunzione endoteliale sono diversi e documentati da numerosi studi in vitro. Per es. la vit. D riduce lo stress ossidativo nelle cellule endoteliali, modulando l’espressione delle sirtuine, e limita l’espressione di geni coinvolti nell’apoptosi. Regola poi la contrattilità delle cellule muscolari lisce, modulando i flussi di calcio e la liberazione da parte dell’endotelio di fattori contratturanti derivati dall’acido arachidonico.

VITAMINA D E MALATTIE CARDIOVASCOLARI – 1 – COS’È LA VITAMINA D?

Il termine vitamina D identifica un gruppo di molecole liposolubili a nucleo steroideo con anello “aperto” (figura), le cui forme principali sono l’ergocalciferolo, o vit. D2, e il colecacliciferolo, o vit. D3.

Il termine “vitamina” (che sta a indicare una sostanza indispensabile alla vita che l’organismo non può produrre e pertanto deve essere assunta con gli alimenti) è in questo caso improprio, in quanto la pelle è in grado di sintetizzare vit. D3 a partire dal 7-deidrocolesterolo, per rottura fotochimica prevalentemente ad opera dei raggi ultravioletti. La capacità della pelle di produrre vit. D3 diminuisce con l’età, la pigmentazione e l’uso di filtri solari, ed è influenzata da stagione, distanza dall’Equatore, altitudine e livello di inquinamento. La vit. D3 è pure presente nel pesce e nel rosso d’uovo. La vit. D2 viene invece prodotta dai vegetali per irradiazione di uno sterolo di membrana, l’ergosterolo.

Le vitamine D2 e D3 sono biologicamente inerti e debbono essere attivate da una serie di idrossilazioni; la prima, ad opera del fegato, produce 25-idrossivit. D, che viene poi convertita alla forma attiva 1,25-idrossivit. D nel rene (figura).

La vit. D favorisce l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, il riassorbimento renale di calcio e i processi di mineralizzazione ossea. La carenza di vit. D pertanto diminuisce l’assorbimento intestinale e il riassorbimento renale di calcio, con conseguente aumento dei livelli di paratormone (PTH), attivazione degli osteoclasti e demineralizzazione ossea.

La condizione di carenza di vit. D viene definita monitorando i livelli serici del metabolita inattivo 25-idrossivit. D, che ha un’emivita decisamente più lunga della forma attiva 1,25-idrossivit. D (settimane vs ore), e fornisce una stima dell’effetto combinato di produzione cutanea e assunzione alimentare. Le linee guida correnti indicano valori <20 ng/ml inadeguati a mantenere un adeguato metabolismo osseo, e indicativi di una condizione di deficit di vit. D. Tale deficit si manifesta con una vaga costellazione di sofferenze e dolori muscolo scheletrici, associata a ridotti livelli serici di calcio e fosforo, e aumento della fosfatasi alcalina e del PTH.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:89, 2017

GLI STEROIDI ANABOLIZZANTI FANNO MALE AL CUORE

Milioni di persone al Mondo utilizzano illecitamente steroidi anabolizzanti (SA), inclusi testosterone e i suoi derivati sintetici, per aumentare la massa muscolare o per motivi estetici. Il consumo di anabolizzanti è cresciuto a partire dagli anni ’80 e quindi un considerevole numero di consumatori “cronici” si trova ora nella mezz’età, quando in genere compaiono i primi effetti secondari di un loro uso prolungato, in particolare a carico del sistema cardiocircolatorio.

I ricercatori Massachusetts General Hospital di Boston coordinati da Aaron L. Baggish hanno condotto uno studio di coorte trasversale, reclutando 140 soggetti di sesso maschile di età compresa tra 34 e 54 anni, di cui 86 utilizzavano da oltre 2 anni SA e 54 che non li utilizzavano. Hanno valutato la funzionalità ventricolare con ecocardiografia transtoracica e l’aterosclerosi coronarica con TC coronarica. Rispetto ai non utilizzatori, chi assumeva SA presentava una ridotta funzione sistolica (FE: 52 ± 11% vs. 63 ± 8%, P <0,001) e diastolica (velocità di rilassamento precoce: 9,3 ± 2,4 cm/s vs. 11,1 ± 2,0 cm/s, P <0,001) del ventricolo sinistro. Gli utilizzatori di SA presentavano anche una maggiore estensione dell’aterosclerosi coronarica, che correlava con la durata di esposizione a SA. L’utilizzo di SA si associa quindi a disfunzione cardiaca e aterosclerosi precoce. Visto il crescente consumo di AS tra gli atleti non professionisti e la popolazione in generale, è bene che i medici prestino maggior attenzione agli effetti negativi di tali sostanze e che si mettano in atto politiche sanitarie volte a scoraggiarne l’uso.

Circulation (IF=19.309) 135:1991,2017

PSORIASI E ATEROSCLEROSI CORONARICA

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle, non infettiva né contagiosa, a carattere cronico e recidivante. La pelle si accumula rapidamente e si ispessisce nelle zone interessate dalle lesioni conferendo un aspetto squamoso bianco-argenteo (figura). Anche se il disturbo può comparire in qualsiasi zona del corpo, in genere si localizza in corrispondenza di gomiti, ginocchia, cuoio capelluto, parte lombare della schiena, palmi delle mani e piante dei piedi, e in regione genitale (figura). La malattia, ad andamento cronico e ricorrente, è variabile nell’estensione dell’interessamento cutaneo; alcuni soggetti sono affetti da un numero molto limitato di piccole chiazze, altri hanno il corpo quasi completamente coperto da lesioni.

La psoriasi è un modello umano ideale per studiare la relazione tra infiammazione cronica e aterosclerosi coronarica in vivo. I ricercatori coordinati da Joseph B. Lerman del National Institutes of Health, Bethesda, USA hanno confrontato la prevalenza di placche coronariche, di placche non calcificate (NCP) e di placche ad alto rischio di rottura (HRP) in pazienti con psoriasi (n=105), pazienti iperlipidemici ammissibili alla terapia statinica (n=100) e volontari sani non affetti da psoriasi (HV) (n 25). Nonostante i pazienti psoriasici fossero di dieci anni più giovani e avessero un minor rischio cardiovascolare, la prevalenza di NCB era maggiore e quella di HRP uguale a quella riscontrata nei pazienti iperlipidemici. Rispetto ai volontari sani, i pazienti psoriasici avevano un maggior numero di placche coronariche, di NCP e di HRP. Inoltre, la regressione della malattia psoriasica indotta dalla terapia si associava a una riduzione delle placche coronariche.

Lo studio conferma che l’infiammazione cronica gioca un ruolo rilevante nello sviluppo di aterosclerosi coronarica e dimostra che il controllo dei siti remoti di infiammazione può tradursi in un ridotto rischio cardiopatia.

Circulation (IF=19.309) 136:263,2017

VARIANTI GENETICHE CORRELATE CON I TRIGLICERIDI E CALCIFICAZIONI MITRALICHE

Le calcificazioni dell’anulus mitralico (CAM), identificate con gli esami di diagnostica per immagini cardiaca, sono associate agli eventi cardiovascolari e predispongono allo sviluppo di insufficienza e/o stenosi della valvola mitrale, ma i determinanti genetici di questa patologia non sono noti. Gli autori dello studio che vi proponiamo oggi hanno utilizzato tre diverse tecniche di randomizzazione mendeliana per valutare l’associazione fra 199 polimorfismi genetici correlati con i livelli plasmatici di lipidi (LDL-C, HDL-C e trigliceridi) e CAM in 3 ampie popolazioni reclutate negli studi Framingham Health Study, MESA (Multiethnic European Study of Atherosclerosis) e AGE-RS (Age, Gene/Environment Susceptibility-Reykjavik Study). Per ogni individuo è stato calcolato, in funzione del numero dei polimorfismi di cui era portatore, un valore di rischio genetico (genetic risk score, GRS) associato a ciascuno dei tre parametri lipidici. 1149 dei 5651 partecipanti (20,4%) presentavano CAM.

Nell’analisi globale delle 3 coorti la presenza di CAM era associata con il GRS per i trigliceridi (OR per unità di trigliceridi-GRS: 1.73; 95% CI: 1.24 to 2.41; p = 0.0013)(Figura); non è stata invece riscontrata alcuna associazione con i GRS per LDL-C e HDL-C. Si dimostra quindi che la predisposizione genetica a sviluppare un’ipertrigliceridemia si associa a CAM, un parametro di lesione preclinica della valvola mitralica, che predispone a una disfunzione valvolare clinicamente significativa. Come abbiamo ricordato in altre occasioni gli studi di randomizzazione mendeliano non solo producono associazioni più o meno significative tra i parametri analizzati, ma indicano una relazione di causalità tra di essi. In altre parole, lo studio genetico qui proposto dimostra che l’esposizione a lungo termine a elevati valori di trigliceridemia causa alterazioni precliniche della valvola mitralica. I meccanismi responsabili di tale effetto sono ancora da definire, come è da verificare che una riduzione della trigliceridemia, attraverso la modificazione dello stile di vita o la terapia farmacologica, produca una riduzione delle CAM e della disfunzione valvolare.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 69:2941,2017

COME SI VALUTA LO SVILUPPO DELL’ATEROSCLEROSI NELL’UOMO? LO SPESSORE DEL COMPLESSO MEDIO-INTIMALE (IMT)

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Uno dei parametri più utilizzati per la valutazione dell’aterosclerosi e della sua progressione è lo spessore del complesso medio-intimale (IMT dall’inglese “Intima-Media Thickness”) delle carotidi extracraniche, che può essere misurato con l’ultrasonografia B-mode (vedi articoli precedenti).

Corrisponde alla distanza tra le interfacce “sangue-intima” e “media-avventizia” delle arterie carotidee. Analizzando ecograficamente una parete arteriosa si orservano due linee ecogene parallele separate da uno spazio anecoico; la linea ecogena più luminale è generata dall’interfaccia sangue-intima, mentre quella più esterna è generata dall’interfaccia media-avventizia (figura. CC-IMT: IMT della carotide comune; ICA: carotide interna; ECA: carotide esterna). La corrispondenza anatomica fra l’immagine ultrasonografica e il complesso medio-intimale è stata definita dai ricercatori del Centro più di trent’anni fa in uno studio dove si dimostrava che l’IMT misurato ecograficamente rappresentava una stima reale dello spessore della parete arteriosa (Circulation 74:1399,1986). Nel corso del processo aterosclerotico il complesso medio-intimale tende a ispessirsi formando prima le strie lipidiche, poi le placche fibrose o fibro-lipidiche, e infine le lesioni aterosclerotiche vere e proprie. Pertanto, un aumento dell’IMT riflette un maggiore sviluppo dell’aterosclerosi.

Come già ricordato, la metodica ultrasonografica utilizzata per la misurazione dell’IMT è assolutamente non invasiva, e può essere ripetuta molte volte senza alcun danno al paziente. Questo metodo, validato in centri clinici di tutto il mondo, è attualmente utilizzato in numerosi studi clinici ed epidemiologici, ed è considerato come metodo di riferimento per lo studio dell’aterosclerosi carotidea e per la valutazione del rischio cadiovascolare. Oltre alla non invasività e alla relativa semplicità della misurazione, il grande vantaggio dell’IMT carotideo è che permette una valutazione della predisposizione dell’individuo a sviluppare la patologia aterosclerotica estremamente precoce, ben prima della comparsa delle lesioni aterosclerotiche vere e proprie (placche).

L’IMT carotideo è un indice di aterosclerosi non solo carotidea, ma anche di altri distretti vascolari e in particolare di quello coronarico. L’IMT è direttamente associato alla maggior parte dei fattori di rischio cardiovascolare, quali diabete, dislipidemia e ipertensione. Fornisce un quadro complessivo delle alterazioni strutturali causate dai diversi fattori di rischio nel tempo sulla parete arteriosa ed è stato proposto esso stesso come fattore di rischio da includere in algoritmi per il calcolo del rischio cardiovascolare globale di ciascun individuo. Sulla base di tutte queste evidenze la misura dell’IMT carotideo è attualmente utilizzata in centri clinici e di ricerca per aiutare il medico nella decisione di prescrivere o meno un trattamento farmacologico in pazienti in prevenzione primaria.

BERE CAFFÈ FA BENE ALLA SALUTE E ALLUNGA LA VITA

Lo sostengono due importanti studi pubblicati in contemporanea su Annals of Internal Medicine. Il primo, coordinato da Marc Gunter dell’International Agency for Research on Cancer di Lione, ha coinvolto oltre 520.000 individui di 10 Paesi europei, reclutati nel famoso studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition) e seguiti per un periodo medio di 16 anni. Il secondo, coordinato da Veronica Setiawan della University of Southern Califonia a Los Angeles, ha esaminato una coorte multietnica di 185.000 afroamericani, nippoamericani, latinoamericani e caucasici, anch’essi seguiti per circa 16 anni.
Anche se i due studi non sono direttamente paragonabili (il caffè americano è ben diverso da quello che si beve in Europa e Italia), i risultati sono quasi sovrapponibili: bere caffè riduce la mortalità per tutte le cause di più del 10%; si riduce anche la mortalità per malattie cardiovascolari, respiratorie, digestive e renali, e per cancro. Fa eccezione la mortalità per cancro all’ovaio, che aumenta all’aumentare del consumo di caffè. L’effetto salutare del caffè è “dose-dipendente”: rispetto a chi non beve caffè, chi consuma una tazza di caffè americano (da 235 mL, l’espresso è invece intorno ai 40 mL) al giorno ha un rischio inferiore del 12% di morte da tutte le cause, mentre in chi consuma tre o più tazze il rischio di mortalità si riduce del 18%. I risultati sono sostanzialmente identici in tutte le dieci nazioni europee e le quattro etnie americane, a prescindere quindi dalle diverse abitudini rispetto al consumo e alla preparazione del caffè.
Come si spiega l’effetto salutare del caffè? Il caffè contiene numerosi composti, come i polifenoli, gli acidi clorogenici e i diterpeni, tutti con proprietà antiossidanti. Due o tre tazze di caffè hanno un effetto antiossidante pari se non superiore a quello ottenuto consumando frutta e verdura tre volte al giorno. Chi beve caffè ha un migliore controllo glicemico, un minor livello di infiammazione cronica e una migliore funzionalità epatica e immunitaria. Certamente il beneficio non viene dalla caffeina; l’associazione tra caffè e ridotto rischio di morte è stata riscontrata indipendentemente dalla presenza di caffeina nel caffè consumato; quindi anche il “deca” funziona.

Ann Intern Med (IF=17.202)167:228; 167:236; 2017