DEPRESSIONE E ANSIA ACCORCIANO LA VITA NEL PAZIENTE CARDIOPATICO

La depressione cronica e l’ansia espongono chi ha una patologia coronarica a un maggior rischio di morte prematura. La conferma arriva da uno studio condotto in Nuova Zelanda, in cui sono stati reclutati 950 pazienti colpiti da un attacco cardiaco o ricoverati per angina instabile nei precedenti 3-36 mesi. I pazienti hanno completato un questionario psicologico al momento del reclutamento, che hanno ripetuto dopo sei mesi, 1, 2 e 4 anni. Le domande per valutare la condizione di stress psicologico (inclusa depressione e ansia) hanno riguardato, tra le altre cose, la percezione o meno da parte dei partecipanti di essere costantemente sotto tensione, di trovare la vita una battaglia continua, di provare paura o panico senza un motivo apparente. Nel complesso, 587 pazienti (62%) non sono risultati stressati in nessuna valutazione psicologica; 255 (27%) hanno riferito almeno un leggero stress in due o più valutazioni e 35 (4%) hanno dichiarato di soffrire regolarmente di stress psicologico da moderato a grave.

Durante il follo-up di 12 anni sono stati registrati 398 decessi per tutte le cause e 199 per malattia cardiovascolare. I pazienti con stress moderato/grave presentavano circa il quadruplo di decessi per cause cardiache e quasi il triplo di decessi per qualsiasi causa rispetto ai soggetti non stressati. Un livello di stress leggero non aveva invece effetto sulla mortalità.

Ancora non sappiamo se il trattamento dell’ansia e dello stress sia in grado di ridurre la mortalità, ma disponiamo di sufficienti evidenze per raccomandare ai malati coronarici, e più in generale a tutti gli individui, di cercare il modo di ridurre gli elevati livelli di stress.

Heart (IF=6.059) 2017, doi:10.1136/heartjnl-2016-311097

ECOTOMOGRAFIA B-MODE AD ALTA RISOLUZIONE PER LA VALUTAZIONE DELL’ATEROSCLEROSI

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

L’ultrasonografia B-Mode è una tecnica diagnostica non invasiva che consente di studiare l’aterosclerosi subclinica nei principali distretti vascolari superficiali. Con questa tecnica è possibile ottenere informazioni morfologiche relative sia al lume che alla parete vasale. L’ecotomografia B-Mode ad alta risoluzione utilizza ultrasuoni ad elevata frequenza (7-13 Mhz) e consente di ottenere, in tempo reale, immagini bidimensionali dei principali vasi sanguigni superficiali non schermati da superfici ossee. Tale tecnica fornisce informazioni dettagliate anche su dimensione e caratteristiche di lesioni precoci delle pareti vasali anche se di piccole dimensioni. L’ultrasonografia B-Mode presenta caratteristiche più che soddisfacenti di sensibilità, specificità, accuratezza e riproducibilità. È sicuramente più economica delle tecniche invasive e consente di eseguire valutazioni molto precise dell’evoluzione della patologia aterosclerotica e dell’effetto di trattamenti antiaterosclerotici. Fra i limiti di questa tecnica possiamo annoverare l’impossibilità di visualizzare strutture che non riflettono gli ultrasuoni (anecogene, aree prettamente lipidiche) o strutture con impedenza acustica simile a quella del sangue (emorragie intraplacca od occlusioni trombotiche recenti). Infine, l’eventuale presenza di lesioni calcifiche e/o complicate rende tale tecnica inadatta per la misurazione di stenosi calcifiche. In questo caso sono da preferirsi l’ecocolordoppler e l’angiografia.

In una tipica immagine ultrasonografica, l’anatomia delle arterie carotidi è facilmente riconoscibile. Possiamo osservare, infatti, la carotide comune, la biforcazione e le arterie carotidi interna ed esterna (Figura). Dal punto di vista ultrasonografico il limite distale della carotide comune è riconoscibile dall’inizio della dilatazione della biforcazione e dalla presenza di un ispessimento medio-intimale fisiologico denominato “cresta della biforcazione”. La carotide comune si suddivide, tramite la biforcazione, nella carotide interna, che irrora le parti anteriori dell’encefalo e gli organi della vista, e carotide esterna che irrora collo, faccia e pareti craniche. La biforcazione carotidea ha due riferimenti anatomici chiave che ne permettono la corretta identificazione. II margine inferiore della biforcazione carotidea è definito dalla parte prossimale della dilatazione della biforcazione, il limite superiore è dato dal cosiddetto “flow-divider” che separa l’origine delle arterie interna ed esterna. La carotide interna è delimitata a livello prossimale dal flow-divider e si differenzia dalla carotide esterna per il calibro maggiore e per l’origine con morfologia tipicamente bulbare. La diramazione dell’arteria tiroidea dall’arteria carotide esterna è un altro indice che permette la distinzione tra le due arterie.

COME SI VALUTA LO SVILUPPO DELLA MALATTIA ARTERIOSCLEROTICA?

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

In passato, la mancanza di tecniche per lo studio dell’aterosclerosi in vivo nell’uomo ha portato a effettuare studi soprattutto di tipo autoptico. Nelle ultime decadi lo sviluppo di tecniche diagnostiche invasive e non invasive ha permesso di studiare questa patologia e la sua evoluzione anche nell’uomo. Grazie a queste tecniche è stato possibile eseguire studi clinici che hanno dimostrato come, controllando i diversi fattori di rischio cardiovascolare, sia possibile ridurre la morbilità e la mortalità cardiovascolare. Tuttavia, a causa del fatto che morbilità e mortalità sono eventi relativamente rari, questi studi richiedevano l’arruolamento di un elevato numero di soggetti e interventi terapeutici relativamente lunghi, della durata di 5-10 anni, con forte dispendio di tempo e risorse.

Fra le diverse tecniche attualmente disponibili, l’angiografia coronarica, l’ultrasonografia intravascolare, l’ultrasonografia B-Mode, la risonanza magnetica nucleare e la tomografia a flusso di elettroni permettono di valutare diverse variabili arteriose, quali: il diametro luminale, la percentuale di stenosi, lo spessore della parete vasale, il volume della placca e la specifica distribuzione e localizzazione della malattia aterosclerotica. Non tutte queste variabili possono essere ottenute con le tecniche elencate.

L’arteriografia quantitativa, ad esempio, permette di valutare le dimensioni delle lesioni aterosclerotiche coronariche e le loro variazioni nel tempo solo in modo indiretto, ossia estrapolato dalle differenze di lume residuo. Ciò nonostante, rispetto agli studi basati ad esempio sulla mortalità, grazie a questa tecnica è stato possibile valutare l’efficacia di interventi terapeutici antiaterosclerotici con studi di minore durata e su numerosità campionarie più limitate. L’arteriografia quantitativa è una tecnica invasiva, e in quanto tale può essere utilizzata solo in studi di prevenzione secondaria e va ribadito il fatto che è in grado di fornire solo informazioni sul diametro del lume residuo e non permette di valutare i cambiamenti che avvengono a livello di placche non stenosanti. Per questo motivo è stata di fondamentale importanza l’introduzione di altri metodi di indagine. Attualmente sono disponibili diverse tecniche non invasive capaci di fornire misure di variabili che possono essere utilizzate come marcatori surrogati di aterosclerosi. Tali tecniche, fornendo un end-point per ogni singolo paziente (la variazione della malattia), permettono di effettuare studi di ancora minor durata e su un numero di soggetti ancora più ridotto. A differenza dell’arteriografia quantitativa, che fornisce solo informazioni sul lume arterioso, queste tecniche consentono di studiare le alterazioni precoci della parete arteriosa sia di tipo morfologico (spessore medio-intimale, placche aterosclerotiche e calcificazione delle arterie), che funzionale (irrigidimento della parete arteriosa e disfunzione endoteliale).

Tra i marcatori surrogati, lo spessore del complesso medio-intimale (IMT) delle pareti arteriose, in particolar modo delle carotidi extracraniche, sviluppato e utilizzato per la prima volta nel nostro Centro, si è affermato come il marcatore più accettato dalla comunità scientifica  e rappresenta una misura sicura, economica, precisa e ripetibile di progressione della malattia aterosclerotica. La prossima settimana vedremo come l’IMT carotideo sia facilmente misurabile mediante ecotomografia B-Mode con sonde ad alta risoluzione.

IL 37% DEI DECESSI NELL’UE È PER PATOLOGIE CARDIOCIRCOLATORIE

Eurostat ha pubblicato le statistiche sulle morti per patologie cardiocircolatorie in occasione della giornata mondiale del cuore del 29 settembre. Le malattie del sistema circolatorio sono state nel 2014 causa di morte per 1,833 milioni di persone nell’Unione Europea: oltre un terzo (37%) di tutte le morti nell’Ue. Le donne (994.600 morti) sono state più colpite degli uomini (838.100).  Gli attacchi cardiaci sono rimasti il ​​principale tipo di patologia cardiaca fatale nell’UE e hanno portato alla morte di quasi 623.100 persone (il 34% di tutte le morti causate da malattie del sistema circolatorio), mentre gli ictus hanno ucciso quasi 422.000 persone (il 23% ).

Malattie cardiache e ictus sono stati la causa di due terzi di tutte le morti in Bulgaria (66%), di oltre 1 su 2 decessi in Romania (59%), Lettonia (57%), Lituania (56%), Estonia (53%) e Ungheria (50%), di circa di un terzo nel Regno Unito (27%), nei Paesi Bassi (28%), Belgio (29%), Irlanda e Spagna (entrambi del 30%), Lussemburgo e Portogallo (entrambi del 31%), e di un quarto o meno di tutte i decessi in Danimarca (24%) e in Francia (25%) (Figura). Il dato dell’Italia fornito da Eurostat pone il nostro Paese esattamente nella media Ue con il 37% di decessi. Anche in Italia le più colpite (56,37%) sono le donne mentre gli uomini si fermano al 43,63 per cento.

RIGIDITÀ ARTERIOSA. IL SIGNIFICATO PROGNOSTICO DELLA “PULSE WAVE VELOCITY” AORTICA

Un gran numero di studi prospettici ha dimostrato in maniera chiara come la rigidità arteriosa, valutata misurando la PWV aortica (vedi articoli precedenti su www.centrogorssipaoletti.org) abbia una forte relazione con la futura insorgenza di malattie cardiovascolari, relazione almeno in parte indipendente dall’effetto confondente di altri fattori di rischio cardiovascolare.

Valga per tutti un’analisi del famoso studio di Framingham (Circulation 121: 505, 2010) che dimostra come una PWV carotido-femorale elevata si associa a un aumento del 46% del rischio di sviluppare un evento cardiovascolare, anche dopo avere corretto per l’effetto di età, sesso, pressione arteriosa sistolica, terapia anti-ipertensiva, colesterolo totale e HDL, fumo e diabete (Figura). Inoltre, l’aggiunta della PWV a un modello che include i fattori di rischio sopra riportati è in grado di migliorarne significativamente la capacità predittiva dell’insorgenza di eventi cardiovascolari.

Esistono tre ipotesi per spiegare perché la rigidità arteriosa sia un predittore di rischio cardiovascolare così potente. 1) la rigidità arteriosa potrebbe favorire l’insorgenza di malattie cardiovascolari indipendentemente dai fattori di rischio tradizionali; 2) la rigidità arteriosa potrebbe semplicemente rappresentare un marcatore integrato dell’effetto dei fattori di rischio sulla parete arteriosa, ed essere più strettamente correlata ai futuri eventi cardiovascolari rispetto agli stessi fattori di rischio misurati occasionalmente; 3) visto che l’ateroma altera le proprietà meccaniche della parete arteriosa, la rigidità arteriosa potrebbe rappresentare una misura dell’entità dell’aterosclerosi aortica.

RIGIDITÀ ARTERIOSA, FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE E DANNO D’ORGANO

La rigidità arteriosa viene accentuata, oltre che dall’età e dalla pressione arteriosa (come abbiamo visto nei mesi scorsi; ricordo che gli articoli precedenti sono indicizzati sul sito web del Centro, www.centrogrossipaoletti.org), dal diabete mellito, dalla sindrome metabolica, e dall’obesità viscerale. Numerosi meccanismi sono stati proposti per queste associazioni, tra i quali la produzione da parte del grasso viscerale di numerose citochine (quali interleuchina-6, inibitore dell’attivatore del plasminogeno e leptina) e acidi grassi liberi, tutti responsabili di disfunzione endoteliale, che a sua volta è uno dei meccanismi alla base della rigidità arteriosa. La PWV aortica si correla inoltre con la presenza di danno d’organo a carico di altri distretti, quali l’ipertrofia concentrica e la disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, la microalbuminuria e la disfunzione renale. Un elenco delle condizioni che sono state associate a un aumento della rigidità arteriosa è riportato nella Tabella.

In questi ultimi anni vi è stato un crescente interesse nei confronti della rigidità arteriosa quale indicatore precoce di coinvolgimento vascolare in una serie di condizioni cliniche che costituiscono altrettanti fattori emergenti di rischio cardiovascolare, quali l’infezione da virus dell’immunodeficienza umana (HIV), le patologie infiammatorie croniche e l’emicrania.
L’infezione da HIV e la conseguente AIDS si sono trasformate da malattia rapidamente mortale in patologia a decorso cronico non guaribile ma curabile dopo l’introduzione nella pratica clinica, a metà degli anni ’90 del secolo scorso, delle potenti terapie antiretrovirali di combinazione. L’aumentata aspettativa di vita comporta la comparsa di condizioni patologiche e danni organici fisiologicamente legati all’invecchiamento, che si sovrappongono alle complicanze tardive della terapia antiretrovirale, in particolare le alterazioni metaboliche e il rischio cardiovascolare. La terapia con farmaci antiretrovirali, in particolare con inibitori delle proteasi, si accompagna ad alterazioni metaboliche (dislipidemia, insulino-resistenza, disfunzione endoteliale), che si riflettono in un aumento della rigidità arteriosa. Recenti dati suggeriscono che anche l’infezione da HIV di per sé possa avere un effetto indipendente sfavorevole sullo sviluppo della malattia aterosclerotica e sulla rigidità arteriosa.

Le malattie infiammatorie croniche, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico, si accompagnano a un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari. Un indicatore pre-clinico di tale tendenza è costituito dalla rigidità arteriosa, che risulta precocemente aumentata in entrambe le malattie. Più in generale, la condizione di infiammazione cronica sub-clinica che si associa alla presenza di diversi fattori di rischio cardiovascolare ed è misurata dai valori di proteina C-reattiva ad alta sensibilità, si accompagna a un’aumentata rigidità arteriosa.

L’emicrania, patologia cronica che interessa oltre il 10% della popolazione, è associata a un aumento del rischio di ictus cerebrale ischemico e di altre complicanze cardiovascolari (angina pectoris, infarto miocardico, morte per cause cardiovascolari), per meccanismi non del tutto chiariti. Anch’essa si accompagna a un’aumentata rigidità arteriosa, suggerendo l’esistenza di un coinvolgimento vascolare sistemico nell’emicrania, che può costituire un meccanismo alla base dell’aumentato rischio cardiovascolare nei soggetti affetti.

RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E IPERTENSIONE

La pressione arteriosa rappresenta, dopo l’età, il principale determinante della rigidità arteriosa (arterial stiffness). L’influenza della pressione arteriosa sulla rigidità vascolare dipende da una caratteristica intrinseca della parete arteriosa: la sua anisotropia.

L’equazione di Moens e Korteweg assume che la parete arteriosa sia isotropica, ossia che a un determinato stress (rappresentabile come pressione differenziale) corrisponda sempre la stessa distensione. Per una data variazione di volume (DV) in un determinato volume (V) in risposta a una variazione applicata di pressione (DP), il valore di DP×V/DV è noto come K (se la variazione di volume è espressa come variazione di diametro o di area la costante K è detta modulo elastico di Peterson). Tuttavia, tale assunzione non è giustificata per la parete arteriosa. Le tre principali componenti elastiche della parete arteriosa – collagene, elastina e cellule muscolari lisce – hanno valori molto diversi di K. Inoltre, la rigidità intrinseca delle varie componenti è influenzata dalle modificazioni della matrice mucopolisaccaridica in cui essi sono immersi. Il risultato è che il valore di K di una data arteria varia in maniera non lineare con la pressione e con la frequenza di applicazione dello stress. In altri termini, con l’aumento della distensione di un vaso (cioè, con l’aumento della pressione media) è necessaria una variazione di pressione (DP) sempre maggiore per ottenere la stessa dilatazione.

Dati sperimentali confermano che nei ratti spontaneamente ipertesi si verificano una serie di modificazioni strutturali della parete arteriosa (es. la riduzione delle fenestrazioni nella lamina elastica interna e un maggior numero di connessioni tra le cellule muscolari lisce e la lamina elastica interna), che ridistribuiscono il carico dalle componenti più elastiche, come l’elastina, a quelle più rigide come le fibre collagene, con il risultato di aumentare la rigidità complessiva della parete.

J Hypertens (IF=4.085) 26:182, 2008.

MICROBIOTA E ATEROSCLEROSI

Alterazioni del microbiota intestinale sono state variamente associate all’insorgenza di malattie cardiovascolari. Il coinvolgimento di microorganismi nell’aterogenesi è noto dalla prima metà del XIX secolo, quando si individuò la presenza di agenti patogeni, come Helicobacter pylori, Chlamydia pneumoniae, Porphyromonas gingivalis, Aggregatibacter actinomycetemcomitans, e virus Hepatitis A ed Herpes nella placca aterosclerotica. Tuttavia, l’associazione tra batteri del microbiota intestinale e aterosclerosi è molto più recente. Solo pochi anni fa si dimostrava, attraverso il sequenziamento del metagenoma intestinale di soggetti sani e con aterosclerosi conclamata, che questa si associava ad alterazioni genetiche e funzionali del microbiota intestinale. In particolare, i soggetti con aterosclerosi presentavano un aumento dei batteri del genere Collinsella, mentre gli individui sani mostravano una prevalenza dei generi Eubacterium e Roseburia. Questa variazione qualitativa del microbiota si traduceva in alterazioni funzionali, con un aumento dei batteri che producono sostanze proinfiammatorie nei soggetti con aterosclerosi. Parallelamente si osservava che la composizione del microbiota intestinale è strettamente correlata e quella della placca aterosclerotica, facendo ipotizzare che i batteri della placca derivino dal microbiota intestinale.

I meccanismi attraverso cui il microbiota influenza lo sviluppo dell’aterosclerosi possono essere diretti e indiretti. I primi dipendono dall’attività metabolica del microbiota intestinale, che produce sostanze con azione pro- o anti-aterosclerotica. Un chiaro esempio di come il microbiota possa esercitare un effetto pro-aterosclerotico è rappresentato dalla produzione di trimetilammina N-ossido (TMAO), una molecola organica la cui concentrazione nel sangue aumenta dopo l’assunzione di alimenti ricchi in L-carnitina e colina, come la carne rossa e il pollame. La colina che raggiunge l’intestino crasso viene metabolizzata dai batteri intestinali a formare TMA, che è assorbita e rapidamente ossidata a TMAO ad opera di un enzima epatico, la monoossigenasi contenente flavina (FMO, flavin-containing monooxygenase). Un’elevata concentrazione plasmatica di TMAO si associa a un aumento di eventi cardiovascolari, e il TMAO è stato proposto come un potenziale nuovo marcatore di rischio cardiovascolare, indipendente dai tradizionali fattori di rischio. Al contrario, il microbiota può esplicare un’azione ateroprotettiva grazie al metabolismo dei polifenoli, come le antocianine, di cui sono ricchi i frutti di bosco, che vengono convertite dal microbiota intestinale in acido protocatecuico, la cui concentrazione plasmatica è inversamente associata allo sviluppo di lesioni aterosclerotiche, almeno nei topi.

Gli effetti indiretti del microbiota sull’aterogenesi dipendono invece dalla capacità di modulare fattori di rischio cardiovascolare quali obesità, diabete e dislipidemia. I topi che sviluppano spontaneamente obesità mostrano alterazioni qualitative e quantitative del microbiota intestinale, mentre i topi “germ-free”, privi cioè del microbiota, mostrano una resistenza allo sviluppo di obesità, anche in seguito all’assunzione di una dieta ad alto contenuto di grassi. Nell’uomo, una ridotta variabilità del microbiota intestinale è stata associata ad una maggiore suscettibilità allo sviluppo di obesità, insulino resistenza e diabete.

ANZIANI E CUORE. OBIETTIVI DA CENTRARE PER EVITARE PROBLEMI

Sono sette gli obiettivi individuati dall’American Heart Association (AHA), per promuovere la salute cardiovascolare nella popolazione: 1) non essere in sovrappeso; 2) non fumare o smettere di farlo; 3) svolgere un’attività fisica costante; 4) seguire una dieta sana; 5) essere normotesi; 6) mantenere un livello di colesterolo normale; 7) mantenere la glicemia nella norma.

Nello studio che vi proponiamo oggi, Gaye e colleghi hanno reclutato 7371 uomini e donne di età superiore a 65 anni, e li hanno seguiti per quasi 11 anni. I 7 obiettivi erano da considerarsi raggiunti quando: 1) l’indice di massa corporea (BMI) era <25 kg/m2; 2) il soggetto non fumava o aveva smesso da almeno 12 mesi; 3) il soggetto svolgeva un’attività fisica vigorosa per 75 minuti a settimana o un’attività fisica moderata per almeno 150 minuti a settimana; 4) il soggetto seguiva una dieta che includesse verdure e frutta fresca ogni giorno, pesce due volte o più a settimana e meno di 450 calorie a settimana di zuccheri; 5) la pressione sanguigna era <120/80 mmHg senza assunzione di farmaci; 6) il livello di colesterolo totale era <200 mg/dl senza farmaci; 7) la glicemia era <100 mg/dl senza farmaci. Solo un individuo ha raggiunto tutti i 7 obiettivi di cui sopra, 46 hanno raggiunto 6 obiettivi e 320 ne hanno raggiunti 5; in totale solo il 5% dei partecipanti ha raggiunto almeno 5 obiettivi. Ad eccezione dell’attività fisica e del colesterolo, le donne avevano maggiori probabilità rispetto agli uomini di centrare gli obiettivi.

All’aumentare del numero di obiettivi raggiunti diminuiva la mortalità totale (figura), per malattie cardiovascolari, per cancro. La mortalità era ridotta del 29% nei soggetti che avevano centrato 5-7 obiettivi, e del 16% in quelli che avevano centrato 3-4 obiettivi, rispetto ai soggetti che non raggiungevano più di due obiettivi. In modo analogo, diminuiva il rischio di eventi coronarici e ictus.

Seppur con le dovute limitazioni (quanti anziani oggi non assumono farmaci per il controllo della pressione, del colesterolo o della glicemia?) lo studio dimostra che anche nell’anziano il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare produce grandi benefici sulla salute e la sopravvivenza. Dimostra anche che tale beneficio aumenta gradualmente all’aumentare del numero di fattori di rischio portati a livello ottimale. L’obiettivo di un invecchiamento di successo non è l’immortalità, ma il tempo trascorso senza malattia e disabilità. Gli anziani dovrebbero concentrarsi non tanto sul perfetto raggiungimento dei 7 obiettivi di salute cardiovascolare proposti dall’AHA, quanto sul percorso individuale necessario per raggiungere questi obiettivi. Anche un numero limitato di obiettivi raggiunti con pochi sacrifici può essere sufficiente per mantenersi in buona salute e allungare la vita.

Journal of the American College of Cardiology (IF=19.896) 69:3015, 2017

RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E INVECCHIAMENTO

La rigidità arteriosa, valutata misurando la Pulse Wave Velocity aortica, come abbiamo visto nei giorni scorsi, costituisce un marcatore integrato dell’azione di numerosi fattori di rischio cardiovascolare.

L’età rappresenta il principale determinante della rigidità arteriosa. Con l’età e con il ripetersi di cicli di stress, le fibre elastiche vanno incontro a fratturazione e frammentazione, con conseguente dilatazione del vaso e irrigidimento della parete. Il progressivo irrigidimento dell’aorta che si osserva con l’età non è un innocuo e inevitabile effetto “fisiologico” dell’invecchiamento, ma comporta almeno due conseguenze emodinamiche sfavorevoli: a) l’aumento della velocità sia dell’onda incidente che di quella riflessa fa sì che l’onda riflessa si fonda con quella incidente più precocemente, ossia già nella prima della parte della sistole, invece che alla fine della sistole. Ciò aumenta la pressione sistolica aortica (con conseguente aumento del post-carico cardiaco) e riduce la pressione diastolica, che riduce il flusso ematico miocardico, favorendo l’evoluzione verso l’ischemia miocardica e l’insufficienza cardiaca; b) l’aumento della rigidità arteriosa è molto più marcato nelle arterie elastiche (aorta e carotidi) che nelle arterie muscolari (più periferiche). Succede così che con l’età la rigidità aortica raggiunga e superi quella periferica, riducendo o addirittura invertendo il normale gradiente centro-periferia che è il principale responsabile della riflessione dell’onda sfigmica. Ciò fa sì che il sito di riflessione dell’onda si sposti con l’età più distalmente e che l’entità dell’onda riflessa si riduca. Tutto ciò aumenta la trasmissione in periferia di un’ampia onda incidente, che espone arterie ed arteriole periferiche a livelli dannosi di pulsatilità pressoria e può contribuire all’ampio spettro di alterazioni micro vascolari che si osservano comunemente nell’anziano, specialmente negli organi ad alto flusso e bassa resistenza come l’encefalo e i reni.